Non esiste il diritto di avere un figlio ad ogni costo

Fa molto discutere la recente bocciatura, da parte della commissione delle politiche europee del Senato, relativa alla proposta di regolamento europeo per il riconoscimento dei diritti dei figli anche di coppie gay e l’adozione di un certificato europeo di filiazione. Pur non volendo entrare nel merito prettamente politico della vicenda, crediamo che, sui temi etici, debba prevalere una garantita indipendenza degli Stati membri che si differenziano per storia, cultura, tradizioni e valori.

L’approvazione di tale norma giuridica avrebbe infatti consentito di bypassare il divieto di maternità surrogata, normata nel nostro paese dall’art. 12 comma 6, della legge 40 del 2004, mediante l’approvazione della gestazione per altri (utero in affitto) anche da parte di coppie dello stesso sesso essendo, in tal caso, sufficiente per un genitore farsi rilasciare il certificato di filiazione in uno Stato membro più accomodante sul tema per vedere riconosciuta anche in Italia la sua genitorialità. Le conseguenze di tale evenienza, avrebbero riguardato il “concepito” e la “madre gestazionale”.

I sostenitori di tali leggi, sostengono che in nome di una “presunta” libertà ed autodeterminazione esista un “diritto” comunque ad avere un figlio; il grande equivoco risiede nell’aver confuso il “desiderio”, seppur legittimo e lodevole, con il “diritto” ad avere un figlio.

In questa logica dei diritti l’egoismo, travestito da diritto, ha preso il sopravvento nelle questioni etiche, per cui esiste un diritto ad avere un figlio ad ogni costo o al contrario ad abortire, un diritto a sperimentare sugli embrioni, un diritto all’adozione delle coppie omosessuali o dei single, un diritto a sentirsi maschi o femmine indipendentemente dal sesso biologico, un diritto alla liberalizzazione delle droghe “così dette leggere” ed infine un diritto di scegliere anticipatamente se vivere o morire.

Ma mentre nella nostra Costituzione l’Art. 29 “riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio” e l’Art. 4 “riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto”, nulla è normato relativamente al presunto diritto ad avere un figlio.

Tutto nasce, negli ultimi decenni, dall’errata interpretazione che ha visto confondere il desiderio con il diritto ad avere un figlio. Da questo assunto sono nate nuove prospettive scientifiche che spesso, in termini etici, hanno calpestato la naturalezza della procreazione e della gestazione.

Mi riferisco al così detto utero in affitto il cui termine, per attenuarne l’impatto semantico, si è cercato di edulcorare con quello di maternità surrogata o di gravidanza per altri (Gpa). Con questa procedura si assiste di fatto ad un doppio attentato alla dignità umana, con la “cosificazione” del corpo femminile e con la condanna dei bambini, come affermava San Giovanni Paolo II nella sua Lettera alle famiglie, ad “esser orfani dei loro genitori vivi”.

Si tratta di fatto di avere in prestito, per il periodo gestazionale, l’utero di una donatrice per impiantarvi un embrione confezionato con gameti esterni o della coppia committente, poco importa se etero o omosessuale, la quale diventerà quindi la coppia genitoriale sociale. In altri termini, come in ogni contratto, si stabilisce un pactum tra due parti contraenti in cui, secondo un prezzo stabilito, una è la parte committente e l’altra la ricevente.

Poco importa se, a fronte di cifre che negli Stati Uniti possono arrivare finanche a 100mila dollari, le gestanti siano giovani donne che soprattutto in paesi quali l’India sono costrette a mercificare il proprio corpo per qualche migliaio di rupie, senza tutela sanitaria e non potendo poi accampare alla nascita diritti sul bambino che comunque per nove mesi hanno portato nel loro grembo.

Su questa linea di pensiero del resto era anche l’illustre clinico Prof. Umberto Veronesi quando affermava che: “La maternità surrogata può essere un’occasione per le donne non abbienti per migliorare sensibilmente il proprio tenore di vita, per aiutare i figli a pagarsi gli studi” e proseguiva: “In una società in cui il minatore affitta i suoi muscoli alla compagnia mineraria, e in cui l’ingegnere affitta il suo cervello all’impresa edilizia, la domanda è: davvero è così inaccettabile affittare l’utero?”.

Si rimane perplessi riguardo a tali affermazioni e sconcertati davanti alla mercificazione di valori che non possono essere considerati semplicemente come confessionali, ma piuttosto come valori etici universali ed appartenenti in toto al mondo femminile. Il rendere una donna come puro corpo mercificato per ottenere un vantaggio economico non la discosta molto infatti dalla vendita di sé stessa agli stessi fini utilitaristici monetari.

L’utero in affitto rappresenta pertanto quanto di più triste, abietto ed avvilente per una donna la quale per sopravvivere, in una sorta di schiavitù a favore del mondo occidentale, è costretta suo malgrado a sottoporsi ad un “canone” si remunerativo ma altrettanto terribilmente umiliante per il genere femminile.

Nella gravidanza commissiva o nell’adozione, bisogna tener conto del precipuo interesse del bambino. Secondo questo principio nella fattispecie che riguarda le coppie dello stesso sesso, bisogna considerare che nella relazione omosessuale, mancano comunque gli elementi essenziali della struttura della famiglia fondata sul matrimonio (art.29 della Costituzione) caratterizzata dalla diversità sessuale presupposto imprescindibile della complementarietà che supera la difettosità originaria dell’individuo.

Senza contare poi che nei figli il processo di formazione dell’io personale, cioè il processo di strutturazione della coscienza di sé e della propria identità sessuale che nella famiglia trova l’ambiente ideale proprio per la compresenza della figura paterna e materna, appare a dir poco difficilmente perseguibile nella coppia omosessuale caratterizzata, al contrario, dalla sussistenza di due figure genitoriali dello stesso sesso.

La struttura della famiglia non è come si vorrebbe far credere storico-culturale, non è destinata a mutare col divenire della storia o coi mutamenti della società: ha un fondamento antropologico. E d’altra parte c’è la Costituzione che pensa alla famiglia come società fondata sul matrimonio.

Professore Stefano Ojetti, segretario nazionale dell’Associazione Medici Cattolici Italiani