La scelta miope dei tagli all'editoria

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uella sul contributo pubblico all’editoria, sia essa cartacea o radiotelevisiva/online, è una questione annosa. Da diverso tempo esiste un movimento piuttosto trasversale che ne chiede l’abolizione indicando come una distorsione di mercato il sistema esistente in Italia che permette a diversi editori di rimanere sul mercato e di fare utili. L’affondo più duro, però, è giunto, tempo fa, dal vicepremier Luigi Di Maio che ha dichiarato: “Faremo un taglio graduale all'editoria. Era una nostra grande battaglia dal 25 aprile del 2008. Si farà un primo taglio del 25% nel 2019 per i fondi all'editoria, il 50% nel 2020 e il 75% nel 2021 fino a che nel 2022 non ci saranno più fondi all'editoria in modo tale che tutti i giornali possano stare sul mercato.”

Questa la si può vedere come una vera “dichiarazione di guerra” ma leggendo la dichiarazione, però, non sembra che ci sia una certa contraddizione tra il “non ci saranno più fondi all’editoria” e il “che tutti i giornali possano stare sul mercato”? Quando parla il leader pentastellato, in effetti, occorre una certa capacità di esegesi; sarebbe stato più corretto indicare che l’assenza dei contributi pubblici permetterebbero a tutte le testate di concorrere, in par condicio, sul mercato, ma che questa riduzione iniziale per poi giungere alla completa abolizione permetterebbe solo a chi possa contare su un gruppo solido finanziariamente di sopravvivere sul mercato e porterebbe alla chiusura di diversi giornali e emittenti storiche come Radio Radicale che pur potrebbe contare ancora sul compenso per “servizio pubblico” ma che potrebbe non essere sufficiente a permetterne la sopravvivenza. Non è un mistero per nessuno che nel corso degli ultimi decenni la tiratura dei quotidiani e della stampa d’informazione, in generis, sia in continuo calo, anche drastico, con la conseguente diminuzione anche della raccolta pubblicitaria che rappresenta il capitolo di introito più corposo nei bilanci dei giornali, ben più delle vendite degli stessi. Il fenomeno è comune in tutti i Paesi più evoluti, da un a parte per il disinteresse di una larga fetta della popolazione e dall’altra per l’avvento dei nuovi media che hanno permesso l’accesso disintermediato a più fonti di informazione, anche “bufalare”, tanto che l’autorevolezza stessa del giornalismo, come professione, ha subito, spesso ingiustamente ma anche per evidenti colpe di molti autori incapaci di scindere i fatti dalle, se pur lecite, interpretazioni personali, un duro colpo che si è riflesso nelle vendite delle varie testate.

Dai toni mantenuti dagli esponenti della compagine pentastellata, tornando a bomba sulla questione contributi pubblici, sembrerebbe che il costo dell’editoria a carico del bilancio dello Stato sia molto pesante ma, come al solito, non vengono fornite cifre ma dichiarazioni di intenti, anche perché, alla fine, se si andasse a fondo sulla materia si scoprirebbe che i fondi in questione sono assai ridotti, rispetto ad altri capitoli di spesa: si parla, cioè, di circa 470 milioni di euro di contributi indiretti (tra iva agevolata, tariffe postali riservate e agevolazioni nel credito), di cui usufruiscono anche certe testate che fanno del “non percepire fondi pubblici” un punto saliente della loro campagna promozionale, e di 50 milioni di euro circa di contributi diretti ad alcune testate, tra cui le cooperative di giornalisti o le pubblicazioni delle minoranze linguistiche, ad esempio. Il totale pesa lo 0,7%, largo circa, sulla spesa pubblica complessiva, un’inezia alla fine ma che rappresenta un possibile pilastro di libertà. Non si creda, infatti, che il finanziamento alla stampa sia un fenomeno solo italiano. Già si diceva prima che il calo delle copie e dei lettori sia una caratteristica comune in ogni Paese evoluto, tanto che un sistema di contributi a sostegno del settore esiste in buona parte d’Europa, dall’Austria alla Francia alla Germania, dove sono previsti sia contributi indiretti sia diretti (in Germania, però, a carico dei Länder, tanto che non se ne trova traccia nel bilancio federale), questo perché la stampa è un fondamento stesso della democrazia e più è libera più è garanzia di libertà per tutti.

La battaglia per l’abolizione totale del finanziamento pubblico all’editoria, quindi, è più una bandiera miope che un punto focale contro gli sprechi di Stato anche perché a questi fondi è già stato dato un taglio drastico negli anni passati, escludendone sia i giornali organi di partito sia quelli posseduti o compartecipati da gruppi editoriali quotati, riducendone l’ammontare alle cifre sopra indicate che non rappresentano, certamente, un risparmio eclatante a livello di conti pubblici in caso di taglio definitivo. Poco importa che i primi beneficiari del contributo diretto siano pubblicazioni come Avvenire, Italia Oggi, Libero, il Manifesto o, ancora, Il Foglio che, forse, potrebbero anche trovare altre fonti di finanziamento venuto meno quello pubblico, è il principio ad essere importante: quello che la libera stampa sia un valore da tutelare anche con mano pubblica se necessario. Sicuramente la legge sui finanziamenti all’editoria può essere ancora migliorata, magari puntando più su sgravi e contributi indiretti piuttosto che su quelli diretti, giustamente indicati come distorsivi del mercato, ma eliminare ogni sostegno diretto o indiretto, oggi, potrebbe essere la fine di ogni pubblicazione indipendente e questo è uno scenario che non credo sia auspicabile da nessuno.