Opinione

L’importanza di valorizzare la Giornata Mondiale della salute mentale

Il 10 ottobre è la Giornata Mondiale della salute mentale e come tema è stato scelto “Make Mental Health & Well-Being for All a Global Priority”, ossia “Rendere la salute mentale e il benessere di tutti una priorità globale”.

Gli effetti della pandemia sono visibili a tutti. L’angoscia, prima, la paura, dopo, sono stati emotivi che hanno interessato migliaia di esseri umani. In aggiunta, lo scoppio delle guerre e l’emergenza climatica con i fenomeni inattesi ed intensi mettono in seria difficoltà i Paesi che ne risultano colpiti e i cittadini che vi abitano. Il numero di persone che sperimenta problemi di salute della mente è di gran lunga aumentato negli ultimi tre anni.

Il pregiudizio la fa da padrone e rende difficile, in alcuni casi, affrontare apertamente il problema. È uno stigma legato all’idea secondo cui dei problemi mentali è bene non parlare in quanto si è legati all’immagine sociale, al parere altrui e quant’altro. Ci sono casi in cui si arriva a farsi curare molti anni dopo rispetto ai primi sintomi manifestatisi.

Sono ben note, nell’esperienza clinica, le scelte di rivolgersi al medico di base o al neurologo, viste come figure più “soft” rispetto, ad esempio, allo psichiatra. In queste scelte in realtà v’è la dichiarazione di timore legato al mettersi in gioco con sé stessi, impresa ardua.

A maggior ragione è molto importante valorizzare l’importanza della Giornata Mondiale della salute mentale che ci ricorda come proprio la salute mentale riguardi tutti e ciascuno. Se un milione e mezzo di italiani ha disturbi depressivi, non si piò rimanere indifferenti ad un segnale forte e chiaro: c’è bisogno di dialogo con persone competenti. C’è bisogno di supporto clinico adeguato.

Il celebre psichiatra Giovanni Migliarese ricorda la grande attenzione da riservare ai giovani: «Loro certamente non vengono a cercare aiuto, figurarsi, non vanno dal medico neanche per problemi fisici… È un’età in cui tra l’altro ci si sente immortali. A volte bisogna difenderli da rischi esterni, ma molto dipende da loro: fanno esperienze interattive forti, va molto ora il ‘gaming on line’, vissuti immersivi con la realtà virtuale…». Il noto psichiatra riesce anche a fare autocritica aggiungendo: «La psichiatria sia gestita come gli altri trattamenti sanitari, e noi psichiatri mettiamo in campo un po’ più di umiltà».

L’umiltà passa attraverso l’ascolto e l’empatia. L’ascolto attivo empatico è la capacità di mettersi nei panni dell’altro condividendone il vissuto e la percezione emotiva ponendosi in posizione di ascolto. Saper ascoltare presuppone un’attenzione anche al proprio sentire e alla cassa di risonanza emotiva che non può essere trascurata senza ripercussioni sulla percezione soggettiva del benessere. Si tratta di un’abilità trasversale che risulta spendibile in ogni contesto esperienziale.

L’ascolto empatico dirotta l’attenzione dal “perché” l’altro comunica al “come” l’altro si esprime e presuppone delle tappe che prevedono: recepire il contenuto, comprendere la finalità, prestare attenzione al comportamento non verbale, avere consapevolezza rispetto al proprio modo di comunicare, evitare il giudizio. La percezione di chi viene ascoltato determina indubbiamente un feedback positivo e contribuisce a creare un buon clima nella relazione interpersonale. Bisogna ripartire dalla famiglia.

La famiglia è, seguendo le parole di Andreoli, «un ensemble e la sua prima caratteristica è che tutti gli strumenti partecipino, eseguano la loro parte seguendo lo spartito. (…) La famiglia è il luogo dei sentimenti, il risultato risiede nello stare bene insieme, in particolare nel luogo fisico della famiglia, la casa». Se la famiglia, dunque, è arpeggiata sulle corde dei sentimenti, diviene la fonte primaria di energia in cui trovare gioia, libertà e amore. Perché ciò avvenga c’è bisogno di uno “strumento” fondamentale: l’ascolto. La famiglia e la cura sono strettamente interconnesse.

La relazione non può essere sminuita e avvilita nella consegna strenua di farmaci ma va innalzata nell’altezza di uno scambio umano che dona significato pieno a quel gesto. È qui che si introduce l’ascolto.

Esso viene da molti considerato lo “strumento” centrale di cui ha bisogno qualsiasi tipo di relazione. L’ascolto attivo è un ascolto sincero, partecipato, non un ascolto assente o, peggio, tecnico e trincerato dietro l’obiettivo di tracciare un giudizio o una diagnosi o di dover risolvere nell’immediatezza il problema esposto dall’altro, sostituendosi a quest’ultimo. Ascoltare in maniera attiva significa essere capaci di aprirsi totalmente all’altro, mettendo momentaneamente a tacere pregiudizi, timori, aspettative, problemi personali. Senza interrompere, senza fare domande inopportune, senza interpretare, senza fornire soluzioni, sintonizzandosi sul linguaggio, sulla posizione, sullo stato d’animo dell’interlocutore, al punto da entrare in empatia con lui.

L’empatia è la capacità di cogliere l’esperienza soggettiva della persona, guardando le cose dal suo stesso punto di vista, immedesimandosi e comprendendo cosa quest’ultima sta provando. Non è da confondere con l’identificazione. La persona non deve mai perdere la consapevolezza della propria individualità e, per quanto simile possa essere il vissuto del suo interlocutore al proprio, non deve mai cedere alla tentazione di sovrapporre le due esperienze e di rinunciare alla dovuta obiettività, presupposto essenziale per una relazione funzionale.

L’empatia è catalizzatrice del processo di crescita; sentendosi accolto, accettato, compreso, l’interlocutore può ricominciare ad avere fiducia in sé stesso, può liberarsi dell’eventuale peso che lo opprime e riuscire così a cogliere anche voci interiori più sottili che possono già indicare una possibile via di soluzione, può scoprire in sé la capacità di relativizzare la questione che lo tormenta e vedere le cose da un diverso punto di vista, può trovare forza di andare avanti nonostante il suo problema, può riaprirsi alla speranza e a una visione dinamica dell’esistenza e, in particolare, della sua situazione. Nel contempo, l’interlocutore può esprimere e condividere una gioia, liberandola ed esternandola riuscendo a con-dividere il suo vissuto positivo con l’altro. Tutto questo può succedere a volte (o spesso) anche senza che la persona con atteggiamento empatico e in ascolto attivo dica una sola parola, dando priorità ad una comunicazione di tipo non verbale e/o paraverbale.

Utilizzare l’ascolto empatico genera effetti positivi anche su chi lo attua, incrementando l’autostima; inoltre è possibile ottenere maggiori informazioni ed individuare i propri e gli altrui bisogni, al fine di poterli soddisfare in modo più efficace. L’ascolto empatico non richiede uno studio teorico, una comprensione esclusivamente intellettuale e l’accettazione incondizionata; esso non impone una regola ma mette l’altro nella condizione di esplorarsi per trovare la sua verità. L’ascolto empatico favorisce, dunque, una sana relazione interpersonale, in cui l’interazione io-tu può dar vita ad un “noi” carico di armonia e ricco di significato. Per dirla con Andreoli «il bello dell’insieme orchestrale è che ogni elemento si lega all’altro e tutti sono in funzione dell’insieme».

Non bisogna, tuttavia, dimenticare quanto ci ha insegnato Basaglia: «Il malato non è solo un malato ma un uomo con tutte le sue necessità». È esattamente così. Viviamo, dunque, questa giornata dedicata alla salute mentale nella consapevolezza che, laddove clinicamente possibile, si può fare ancora tanto. Risuonano in tal senso le parole di Galimberti: «La follia non è una malattia. È la condizione in cui chiunque di noi da un giorno all’altro può precipitare, ma anche risollevarsi se qualcuno lo ascolta». Già, l’ascolto che, unito all’interazione vera con l’alterità, ha il sapore di un prendersi cura dell’altro che, nel professionale, contempla le necessità reali e incontra l’umano.

Prof. Alfredo Altomonte

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