Il primo maggio del lavoro che non c’è

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Oggi festeggiamo il Primo Maggio più difficile del dopoguerra. La prospettiva per il lavoro, con un calo del PIL del 10%, è pesantissima, anche a causa della debolezza dei primi decreti del Governo e dei tempi lunghi dell’Europa.

Malgrado le promesse che nessuno avrebbe perso il posto di lavoro a causa del coronavirus, sono già 500.000 lavoratori a tempo determinato cui non è stato rinnovato il contratto. A questi si aggiungeranno i posti di lavoro che salteranno nel turismo, nel commercio, nei bar e nella ristorazione.

La globalizzazione e la trasformazione del processo produttivo conseguenti a venti anni di stagnazione (2001-2019) avevano già impoverito il lavoro, spezzettandolo in tanti lavoretti, a tempo determinato, a tempo parziale.

Il primo maggio per il sindacato era l’occasione per parlare del lavoro che c’è, poco si diceva del lavoro che manca. Il sindacato, che oggi ha la maggioranza degli iscritti tra i pensionati, ha cercato soprattutto di difendere il lavoro che c’è dalle profonde trasformazioni del processo produttivo. Emblematica la risicata adesione al Piano degli investimenti di Marchionne. Grave la divisione sindacale sulla TAV e sulle infrastrutture.

Ancora stamane, 1 maggio del dopoguerra Covid-19, il segretario della CGIL Landini non parla del lavoro che non c’è ma chiede di normare lo Smart Working, il lavoro che c’è. Nella stagnazione ha pesato la scarsa convinzione nei partiti e nei sindacati nella battaglia per gli investimenti nelle infrastrutture, il maggiore motore di creazione di nuovi posti lavoro.

Le pesantissime conseguenze del Covid-19 sulle economie mondiali avranno purtroppo pesanti ripercussioni sul lavoro perché il blocco delle produzioni, i cambiamenti nel settore manifatturiero a partire dal settore auto, il calo della domanda globale porteranno alla riduzione del lavoro e alla ristrutturazione dei processi produttivi, se non si lavorerà a un Grande Piano di Rilancio di economia e lavoro.

Nel nostro Paese il ritardo nel capire la gravità del Covid-19 ha sicuramente ampliato la sua contagiosità e ha prolungato la durata del lockdown così da penalizzare il nostro sistema economico. Se alle aziende chiuse fossero arrivati già a fine marzo somme a fondo perduto e il credito agevolato oggi non avremmo tante aziende a rischio chiusura.

Di più, questa volta le condizioni internazionali sono meno favorevoli o più complicate di quelle del 45-46. Allora, malgrado l’Italia uscisse sconfitta, distrutta e senza mezzi dalla Guerra, la scelta dell’Occidente da parte di De Gasperi e delle forze centriste, regalò al nostro Paese le risorse a fondo perduto del Piano Marshall. Anche la CGIL in quei tempi era più collaborativa, Di Vittorio al Presidente degli Industriali Costa, disse: “Prima le fabbriche poi la casa”.

Oggi la divisione dell’Europa in due, Nord contro Sud, ritarderà la decisione sugli interventi e gli aiuti agli Stati che, salvo l’acquisto dei titoli pubblici da parte della BCE, arriveranno a fine anno e difficilmente saranno a fondo perduto ma saranno aiuti sotto la forma di prestiti.

Ecco perché sarebbe necessario un Governo di Unità nazionale che puntasse al rilancio del Paese su alcuni grandi obiettivi condivisi: semplificazione della burocrazia, Piano delle Infrastrutture perché nella economia globale i Paesi più attrattivi di investimenti, turismo e logistica sono quelli meglio collegati e connessi, un Piano di digitalizzazione della manifattura e del Paese, Ambiente e Ricerca scientifica.