Gli errori che la pandemia ci insegna a non ripetere

Appena dichiarato lo stato di emergenza per il focolaio infettivo nel lodigiano a febbraio 2020, vennero coniate le frasi “andrà tutto bene” e “ce la faremo” per tranquillizzare le masse che presto sarebbe ritornata la normalità. Qualcuno, sporadico, capì subito poiché i segnali erano già sufficientemente chiari per la predisposizione della manovra evidentemente già pronta per la divulgazione, per l’uso intensivo ed anomalo dei DPCM, strumenti coniati per altro ma utili a dettare disposizioni senza l’intervento del parlamento, per il pensiero unico osannato su tutte le fonti di informazione uniformate; altri, impauriti dalle morti che venivano certificate a ritmo quotidiano incessante, si sono immediatamente e convintamente adeguati a sospendere ogni forma di libertà per il bene comune.

L’emergenza è dilagata, i centri mondiali di controllo hanno gestito l’informazione, la pandemia si è trasformata in regime (di sicurezza), la speranza e forse anche il desiderio di ritorno alla normalità si sono affievoliti, si è diffusa la convinzione che le esagerazioni del passato dovevano finire, era giusto stare chiusi in casa e riflettere, è utile il lavoro a distanza perché riduce i costi ed aumenta le comodità ed altre considerazioni di favore al nuovo sistema, non si sa se per convenienza o per assuefazione o piuttosto per banale incapacità di pensare diversamente. Ce la faremo è scomparsa perché Remo non ce l’ha fatta, per ironizzare la frase doppia.

E lo ha ben colto Antonio Scurati sulla prima pagina del Corriere di domenica 28 (L’inverno infinito) in cui ha stigmatizzato il silenzio constatando che alla iniziale paura di morire è subentrata la paura che non finirà mai. Giovanni Falcone lo aveva detto: chi ha paura muore ogni giorno. Chissà, forse la pandemia è come la mafia: ti costringe in casa, ti obbliga a comportamenti prestabiliti, ti impedisce di protestare, di opporti, di parlare, altrimenti ti uccide.

Il problema al solito sono le risposte, che Scurati invoca: all’assuefazione va opposta la ricerca di nuove logiche di evoluzione, visto il fallimento della politica novecentesca oramai decretato dalla Cop26 di Glasgow, per evitare di transitare dal naturale ciclo delle stagioni, in cui ad ogni inverno segue una primavera, ad un artificiale autunno perenne.

Oramai è ben acclarata la fine delle democrazie, la cui finestra è durata appena mezzo secolo scarso e solo perché l’egemonia atlantica era giustificata dal pericolo sovietico, caduto il quale nessuno ha più potuto ergersi a guardiano del mondo, con la conseguenza che le autonomie politiche locali hanno iniziato ad autodeterminarsi e questo ha infastidito il manovratore. E la pandemia è stata la panacea, per taluni.

Ma la ripresa dello sviluppo ci sarà certamente, poiché i semi gettati negli animi resi fertili dalle libertà conosciute germoglieranno presto ed all’autunno seguirà prima l’inverno e poi la primavera; i tempi non sono programmabili ma sicuramente riguarderanno i giovani d’oggi e le generazioni a venire mentre gli attempati saranno già fuori dalla produzione attiva al momento della ripartenza, e quei giovani riprenderanno il cammino.

Oggi la riflessione deve riguardare la scelta delle manovre preparatorie durante l’attesa, ovviamente conseguenti a cosa ci aspettiamo ed a quali possibilità abbiamo rispetto alle scelte di salvezza che facciamo. Compito difficile ma abbiamo il dovere, non solo le capacità, di pensarci.