Conobbi Franco Marini poco più che ventenne, e la prima impressione che ebbi fu di una persona dinamica, moderna: un trascinatore nato.
Nel Sindacato aveva fama di leader incontrastato della vasta area del pubblico impiego, riferimento di lavoratori democristiani e di centristi in generale, in quella stagione caratterizzata dalla presenza di estremismi e velleitarismi in campo sociale e politico. Il suo linguaggio sindacale era inconsueto: era asciutto e pacato, con un profilo molto distante da qualsiasi altro protagonista del mondo del lavoro dell’epoca.
Marini mi piacque subito. Per me rappresentava al meglio la filosofia del carattere originario della CISL: l’attitudine alla concretezza degli interessi dei lavoratori, la visione positiva della dialettica tra capitale e lavoro, la vicinanza alla cultura contadina ed alla comune appartenenza alle tradizioni abruzzesi.
Si è formato nella Cisl spostandosi da un territorio all’altro della penisola, così come impegnandosi in più categorie merceologiche come capitava a molti giovani nell’epoca dell’epopea sindacale italiana.
Molto pragmatico e flessibile, era noto per la tenacia nel conseguire risultati voluti. In questo era sindacalista a tutto tondo: ogni iniziativa doveva avere un risultato visibile. Da questa dinamica, era convinto, si sarebbero generati altri risultati influenzati da quelli precedenti, godendo della scia positiva determinatasi dalla esperienza precedente. Ma era anche molto apprezzato per la qualità rarissima di rispettare coloro che lo avversavano. Non amava le rotture senza via d’uscita ed è per questo che la sua conduzione della Cisl è stata apprezzata ed ha potuto dare forza al Sindacato. La sua conclusione dell’esperienza sindacale coincise con la tormentata fine della esperienza della prima Repubblica e con essa la fine della Democrazia Cristiana che lo vide militante già diciassettenne.
Nel 1991 lascia il Sindacato e viene nominato ministro del lavoro, determinando successivamente la sua militanza in ruoli altissimi nel Partito Popolare, nella Margherita e poi determinando in prima fila l’esperienza del Partito Democratico quale esperimento in cui credeva, per riassumere le culture legate all’umanesimo ed al lavoro per il rinnovamento della politica.
Incessante il suo lavoro politico che lo porta all’alta responsabilità di Presidente del Senato, non perdendo mai di vista l’idea forza che lo muoveva: la politica è l’arte dell’accordo e del compromesso, indispensabili per garantire governabilità ed efficacia della azione politica. In questo Marini è stato sempre riconosciuto dagli avversari come leale e costruttivo; uno stile ed un modo di pensare lontanissimo dai clamori, rotture, e scontri della seconda Repubblica.
Pensava che la personalizzazione nella vita pubblica fosse una devianza grave da cui nasceva gran parte dei vizi che in verità hanno così tanto prostrato il nostro paese, così come rifiutava gli eccessi e vacuità del protagonismo mediatico. Ha saputo mantenere il sufficiente distacco e contegno persino quando fu colpito da fuoco amico nella elezione a Presidente della Repubblica.
Si spegne proprio al nascere della esperienza Draghi che tanto gli somiglia per carattere e modo di intendere la vita pubblica.
Sono sicuro che Franco Marini avrebbe fortemente parteggiato per questa nuova e forse ultima chance per gli italiani, per curare i mali economici, sociali, e del modo di intendere l’impegno in politica.
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