Dai passi falsi occorre apprendere il modo corretto di procedere. Non sono mancati gli errori i questi due anni di pandemia. La comunicazione, per esempio, avrebbe dovuto essere rivolta in maniera più decisa a far comprendere i vantaggi della vaccinazione in termini di sanità pubblica, richiamando l’attenzione sui benefici che una vasta popolazione avrebbe ricevuto a fronte di un bassissimo rischio per il singolo individuo. In altre parole, il concetto di “tailored medicine” o “medicina di precisione”, che rappresenta un’innegabile acquisizione di questi ultimi anni in molti campi della medicina, non è applicabile in corso di pandemia, quando ci viene richiesto di ragionare su grandi numeri e non sui singoli individui.
La presenza delle varianti è strettamente connessa con l’efficacia dei vaccini. I vaccini attualmente disponibili, pur con qualche differenza, sono in grado di proteggere dall’infezione e dalla malattia causata dalle varianti del virus, ma il problema va tuttavia affrontato in un contesto più ampio. Innanzitutto, per impedire che l’infezione possa diventare endemica a seguito della comparsa di nuove varianti, bisogna vaccinare al più presto anche i bambini, dal momento che è stato appurato in modo incontrovertibile che i vaccini disponibili sono per essi efficaci e sicuri. Senza immunizzare l’infanzia, il virus continuerà a circolare, ancorché in forma asintomatica, nella popolazione infantile con il rischio che emergano varianti potenzialmente pericolose anche per i vaccinati. Ora sono in arrivo ulteriori vaccini che tengono conto delle varianti e che quindi risultano più performanti nei confronti della protezione.
Nel frattempo, però, la riduzione delle vaccinazioni sull’età pediatrica non è una buona notizia. Un contagio su 4 è al di sotto dei 20 anni. Bisogna accelerare con le somministrazioni anche nella classe di età 5-11 anni e immunizzare in gravidanza. Utilizzando i dati ottenuti dal registro Covid-19 giapponese, uno studio retrospettivo di coorte (Shoji K. e altri) ha posto a confronto 187 donne in gravidanza con 935 donne non gravide per valutare i fattori di rischio per sviluppare una malattia moderato-grave. I risultati ottenuti dimostrano che la gravidanza in sé rappresenta un fattore di rischio per le forme moderate-severe di malattia e che, in particolare, le donne in gravidanza con comorbidità e che sono nel secondo e terzo trimestre, presentano un rischio maggiore di forme moderate-severe. Anche da questo studio emerge in maniera molto convincente l’opportunità della vaccinazione in gravidanza al fine di ridurre il rischio di forme anche gravi di malattia.
Inoltre, nell’ambito delle ricerche nel campo della virologia e diagnostica, un recentissimo studio ha cercato di interpretare i risultati dei tamponi eseguiti utilizzando diverse metodiche sia di tipo molecolare che antigenico per la diagnosi da SARS-CoV-2. E’ stato così confermato che la metodica molecolare è il gold standard diagnostico per la sua elevata sensibilità e specificità, anche se è più costosa e richiede tempi tecnici non brevi. Inoltre è talmente sensibile da individuare singoli frammenti genetici del virus in pazienti non più contagiosi, il che può spiegare la persistente positività del tampone. E’ importante per questo identificare quelle situazioni cliniche nella quali questa metodica può essere con successo sostituita dal test antigenico che, come è noto, è molto più rapido, meno costoso e non richiede personale specializzato. A questo proposito si suggeriscono diversi scenari in cui possono essere utilizzati alternativamente o in combinazione, il test antigenico e quello molecolare. Un test antigenico positivo viene considerato sempre indicativo di infezione da SARS-CoV-2, mentre un test negativo dovrebbe essere confermato da un test molecolare nel caso di pazienti sintomatici o contatti asintomatici di casi sospetti o accertati. Un test antigenico negativo può esser considerato sufficiente per escludere l’infezione se effettuato come screening su un’ampia popolazione.