L’“eroismo” dei familiari assistenti

disabili

Il termine Caregiver indica colui o colei che assiste e supporta una persona non autosufficiente nella vita quotidiana e/o nei momenti di crisi e di difficoltà. Fa parte di un esercito silenzioso, costituito per lo più da donne (74%). In Italia si parla di “assistente familiare” e di “famigliare assistente”: il primo proviene generalmente dall’ esterno della famiglia e quindi viene assunto regolarmente e stipendiato dalla famiglia stessa, mentre il secondo è un componente della famiglia e perciò un volontario. L’ attività che svolge è ininterrotta e indispensabile: è, per così dire, un “lavoro coatto”, percepito sia all’interno del nucleo familiare, sia all’ esterno come un dovere assoluto. Ma è molto, molto di più. È una persona, il volontario, che si destreggia gratuitamente ogni giorno fra i vari impegni, cercando di occuparsi non solo del congiunto in difficoltà, ma anche di mantenere l’equilibrio di tutta la famiglia. Le mie riflessioni riguardano in particolare questo aspetto, quando è un componente della famiglia che si occupa di congiunti con disabilità grave o gravissima e che quindi richiedono una presenza assistenziale costante.

Molte persone con disabilità hanno la possibilità di frequentare strutture semi-residenziali, come i CDD, il che costituisce un prezioso aiuto e sollievo; ma molti sono anche coloro che per vari motivi, non ultimo la gravità, rimangono all’ interno del nucleo familiare 24 ore su 24. Possono chiedere ai Comuni servizi di assistenza domiciliare, servizi erogati però per poche ore settimanali e dietro corrispettivi in denaro a seconda dell’ISEE.

Su questo aspetto si dovrebbe riflettere: la quota di partecipazione ai costi per la frequenza di una struttura semi residenziale o residenziale grava sulla famiglia, sui Comuni per la parte assistenziale e sulle Regioni per la parte sanitaria. Quindi c’è una compartecipazione ai costi da parte del Pubblico. È un grande aiuto economico, encomiabile; però non c’è un aiuto analogo per tutte quelle famiglie che, giorno dopo giorno, anno dopo anno, sono sole nell’assistenza. È una questione di equità e giustizia sociale.

Non entro nel merito dei vari percorsi parlamentari che si sono occupati della questione per cercare di dare dignità al ruolo del Caregiver – familiare assistente, figura che, fino ad ora, non è riconosciuta giuridicamente. Mi limito a citare la Legge di bilancio 2021 (Legge 178/2020) che prevede un nuovo fondo per riconoscere l’attività del Caregiver, ma, a tutto oggi, siamo ancora lontani dall’ aver capito questo problema delicatissimo nella sua realtà sia per le famiglie, sia per i congiunti assistiti.

Eppure, i numeri parlano chiaro. Una statistica del 2010 aveva stimato in quasi tre milioni e mezzo i soggetti che, in ambito familiare si prendono cura in maniera regolare di persone disabili o di anziani non autosufficienti. Stando a un’indagine dell’Istat del 2015, sarebbero oltre sette milioni le persone che rientrano nella categoria dei familiari caregiver. La posizione lavorativa non è stata ancora inquadrata né a livello di riconoscimento della importanza e della necessità- sempre crescente – di questa figura, né tanto meno a livello retributivo e contributivo. Ci sono delle agevolazioni (ad esempio i famosi permessi mensili – su cui si dovrebbe ridiscutere -, i due anni di congedo retribuito, l’Ape sociale per poter andare in pensione anticipatamente, misure fiscali, ecc,) ma sono misure che riguardano solo coloro che svolgono o hanno svolto attività lavorativa. La quasi totalità dei famigliari assistenti non può svolgere alcun lavoro. Sono occupati totalmente a fare altro. Siamo tanti ad essere assolutamente sbalorditi per il fatto che ancora non sia compresa la situazione (drammatica, per non dire tragica) di quei famigliari che devono occuparsi per molte ore della giornata e anche per h 24 di un congiunto grave o gravissimo. Rinunciano a poco a poco alle proprie necessità, aspirazioni, desideri, non possono contribuire al bilancio familiare dal momento che il compito a cui devono attendere impedisce l’attività lavorativa all’esterno dell’ambito familiare, mettendo a repentaglio il proprio equilibrio psicofisico, quando ansia, tensione, fatiche, paura per il futuro per tutta la famiglia crescono (e inevitabilmente crescono).

Nessuna o poche soste, niente o pochissime uscite, niente attività professionale, niente riconoscimento economico, niente pensione, niente prestigio, niente comprensione, tanto dolore, tanta solitudine, tante preoccupazioni, tanta fatica, tanto stress psicofisico: in una situazione del genere, ci sono poche via d’ uscita al momento: una costruisce e l’altra distrugge.

La prima è quella dell’Amore, tanto amore vero che sa dare senza chiedere, senza aspettarsi nulla in cambio, che accetta l’altro per quello che è, che è gioioso nel sacrificio: è amore nel senso più profondo del termine e questa è una ricchezza che può salvare un’intera famiglia (perché dove c’è un congiunto disabile, specie se grave o gravissimo, tutta la famiglia è coralmente coinvolta); parliamo di quello che si dice “amore oblativo”. Un’ altra via porta all’ indifferenza e allo stravolgimento delle emozioni, via pericolosa per tutta la famiglia. Si diventa anaffettivi, ci si spegne.

Ho citato la Legge 178 del 2020 e voglio riportare quanto ha scritto un genitore. “Sono allo stremo. Dopo un anno terribile, che ha lasciato tanti genitori ancora più soli e privi dei servizi essenziali, chiediamo ascolto. La Legge in discussione rischia di essere amara: una manciata di contributi figurativi e la necessità di dimostrare all’ Inps il numero delle ore che dedichiamo all’ attività di caregiver. Non si è ancora compreso che non si possono contare le ore quando questo compito implica tutta l’intera esistenza e la totale rinuncia alla propria individualità. Nessun vero sostegno, nessun supporto, nessuna prospettiva. Rischio silente: da un malato tiriamo fuori tutta una famiglia malata. In Senato le parole del Capo di Governo (eravamo nel 2020) ci hanno dato una speranza, la volontà di riaprire una stagione di provvedimenti e di progettualità…. ma siamo ancora lontani dalla realtà della vita quotidiana. Siamo allo stremo”.

Cosa aspettiamo ancora? Quando sapremo riconoscere l’eroismo di questo esercito che è stanco, che ha bisogno di veder riconosciuto il proprio “lavoro” in dignità, in conoscenza e in riconoscenza, in comprensione e collaborazione, in vicinanza e rispetto, in stima e anche nel suo valore economico per il paese e per il welfare. Invece di contributi figurativi per una pensione fittizia che sa di elemosina, come e quando sapremo valutare l’attività del caregiver come un vero Lavoro.