Disabili: no assistenza, ma appartenenza

3 dicembre, giornata internazionale per i diritti delle persone con disabilità: il rischio è altissimo! L’istituzione di una giornata di riflessione, pur volendo sollevare l’attenzione sul tema, porta con sé il grave pericolo di avviare un clichè borghese, stucchevole e patinato fatto di un pro forma che salvi le apparenze, ma si svuoti nella sostanza. Si temono sequestri di massa dei disabili migliori, delle eccellenze della menomazione fisica; sono in agguato premiazioni e medaglieri per quanti sapranno emergere come disabili fighi e all’avanguardia, capaci di dimostrare di essere sempre più evoluti e simili ai “normali”.

Il rischio è altissimo, ripeto. Poi ci si mette di mezzo anche l’Europa che sembra ce la metta tutta per rendersi ridicola con un aggiornato galateo verbale – rapidamente ritirato – che, in nome dell’inclusività, vuole annichilire le identità di genere, imporre un linguaggio neutro e asessuato, livellare ogni diversità. Che errore madornale, cara Europa! Non si possono anestetizzare le differenze in nome di una migliore integrazione sociale. Declinando un pensiero dell’ormai venerabile don Tonino Bello si potrebbe affermare che “la comunità è la convivialità delle differenze”.

Le persone con disabilità sono il campanello d’allarme che risveglia questo eterno sonnellino in cui si è soliti crogiolarsi e questo comodo torpore in cui si addormentano tutte le diversità. I disabili pretendono la diversità. Non aspirano a vincere la disabilità o scimmiottare la normalità, ma sperano di convivere con la debolezza, di accoglierla come ricchezza per sé e per gli altri, di costruire la società civile con la loro fragilità.

Sono veri luminari all’Accademia della fragilità. Riluttanti ad ogni forma pietistica di assistenzialismo e di mediocre commiserazione, le persone disabili portano in se stessi una vera e propria “vocazione all’umanità”, cioè a quella missione seminata in ogni persona di convertire ogni essere umano ad essere sempre più umano. È la loro debolezza che umanizza l’uomo e rigenera i valori fondanti una comunità politica. Non chiedono assistenza, ma appartenenza.

Ricordo la storia di Antonio, disabile a seguito di un incidente stradale. Avrebbe potuto restare in ospedale solo 2 anni, ne rimase 7 perché non c’era posto per lui in nessuna realtà di accoglienza famigliare. Finalmente fu accolto in una famiglia che ebbe il coraggio di guardare dallo spioncino e vedere chi stesse suonando il campanello e poi aprire la porta di casa. Antonio non portò con sé neanche una valigia, nessuno zaino, neanche un borsone… solo una busta di un supermercato con dentro 2 pigiami e tre magliette bianche. Aveva 23 anni e tutta la sua storia, i suoi effetti personale, ogni suo ricordo affettivo si risolveva in soli 2 pigiami e tre magliette bianche. Una biografia disintegrata, un’identità polverizzata, la dignità umana calpestata. Antonio non cercava altro che appartenenza, relazioni e legami autentici che restituissero a lui la dignità perduta.

La persona disabile implora una rivoluzione culturale in cui sia assodato che ogni creatura prima di essere un handicappato, una sindrome genetica, prima di essere un caso clinico o una delezione cromosomica, prima ancora di essere una pietra d’inciampo della società civilizzata, quella creatura è un uomo, costruttore di civiltà con la sua propria identità, con la sua fragilità esistenziale.

I disabili convivono con la debolezza umana, nella loro pelle ne fanno esperienza quotidiana. Comunicano debolezza perché incarnano debolezza. Cambiano la vita di chi incontrano, perché ogni storia debole che attraversa la vita di un altro uomo non lascia mai impassibili.

Papa Francesco li definisce “esiliati occulti” che sentono di esistere senza appartenere e senza partecipare. Non c’è peggior alienazione che sperimentare di non avere radici, di non appartenere a nessuno.

Il rischio è altissimo, ma è anche il tempo della grande opportunità: costruire una comunità in cui non ci siano scarti né periferie; una comunità in cui anche i più deboli, con il proprio molto o con il poco che hanno, diventino “muratori di civiltà”.

Luca Russo, Associazione Comunità Papa Giovanni XXIII