La cultura della guerra produce solo odio

Devo partire da una particolare simpatia che da sempre mi avvicina agli sconfitti; fin da ragazzo tifavo per i Troiani, non solo e non tanto per quel pathos di eroismo, misto a lealtà, che mi suscitava la figura di Ettore, pervasa di profonda umanità, di fronte alla forza bruta ed all’ira di Achille, cui mi sentivo estraneo, ma forse di più per l’avversione all’astuzia di Ulisse che, con la sua pensata, ha certo assicurato ai suoi la vittoria ma ha violato le regole, dando vita al primo massacro di innocenti che la storia documenti: alla corte di Alcinoo, Demòdoco cantava come qua e là l’ardua città saccheggiarono (Odissea, VIII, 516), tanto che Dante lo colloca tra i consiglieri fraudolenti, nell’ottava bolgia, condannati ad ardere come lingue di fuoco, contrappasso della lingua con cui peccarono.

Sembra che oggi l’astuzia, invece, sia un merito, ancorché disdicevole, perché porta al risultato, anche se con un patente inganno, unica cosa che oggi sembra contare davvero perché la cultura che si propone è sempre quella della vittoria, a tutti i costi è il caso di dire, quello dell’essere vincenti nonostante l’ultimo che incitò a vincere fu cattivo profeta, di essere i primi, benché da Cristo si apprese che proprio essi saranno gli ultimi (Mt. 20, 16). Perché?

È la cultura della guerra che inneggia alla vittoria, è la lotta che determina il vincitore, è la competizione che pone i primati; la cultura della pace, all’inverso, è accoglienza, è comprensione, è benevolenza e sono questi i sentimenti più diffusi e che sono onnipresenti nell’agire umano. Mi viene in mente che la frase chi è l’ultimo? è diffusa quotidianamente in chiunque si accinga a sbrigare una faccenda ove trova altri in coda. Lo chiede per aspettare serenamente il suo turno e porsi dopo l’ultimo che aspetta: un gesto naturale che nessuno si sogna di negare sopraffacendo chi ci è avanti nella fila. È banale, ma ci poniamo dietro l’ultimo, non solo doverosamente ma anche coscienziosamente.

E quanti hanno mai avuto voglia di combattere con gli altri per primeggiare, quanti non sono interessati a vincere non si sa cosa, quanti non disprezzano chi ha bisogno, chi è che non cede il posto a chi sembra averne più diritto, perché più debole, infermo o insicuro; ma allora questa necessità di essere il primo, sempre e comunque, a qualunque costo, è solo nel messaggio propinato, non certo nella realtà, che si tinge di colori più rosei nell’agire spontaneo di molti ancorché macchiata dalle tinte fosche e cupe della tracotanza o della disonestà di pochi: sicuramente fa più notizia la tragica vicenda di un vita strappata con violenza rispetto al matrimonio di due sposi innamorati che celebrano la ragione dell’esistenza. Non è più importante la prima rispetto alla seconda: è che la prima si vende e la seconda no, e quindi c’è chi lucra dietro quell’episodio tragico.

Possiamo allora prendere le debite distanze da ciò che non apporta alcun benessere né a noi né all’umanità, ma arricchisce soltanto adulatori e mistificatori, perché abbiamo affinato le nostre capacità di discernimento tra quanto ci viene proposto e propinato, e sappiamo riconoscere ciò che è autenticamente buono, al di là delle futili lusinghe e delle patine artificiali, da ciò che è invece nocivo, per il corpo e per l’anima, e rispedirlo al mittente.

Oggi ho visto un cartellone pubblicitario di un film in programmazione: Non Odiare. Non ho visto il film e forse non lo vedrò per timore di restare deluso da quanto mi aspetto da un titolo così importante. Mi basta il titolo per proporlo come regola dei tempi attuali, in risposta all’assillante invito a predominare sugli altri e ad esprimere con ogni mezzo la propria forza, coltivando il sentimento opposto all’unico vero bene della vita, che è l’amore cristiano, a cominciare da quello per gli ultimi. Ma chi sono veramente gli ultimi?