Le conseguenze dell’allontanamento dell’uomo da Dio

Dimorano sulla terra, ma sono cittadini del cielo”. Rispondeva così Diogneto, nel secondo punto della sua Lettera, alla domanda su come i cristiani dovessero comportarsi. Intendeva dire che i credenti in Cristo abitano contemporaneamente in due “città” diverse: testimoni della patria celeste, ossia della presenza di Dio nella storia; e, insieme, protagonisti, come gli altri cittadini, della patria terrena, calandosi totalmente nella realtà del proprio tempo. Ma da allora, era il II secolo, sono passati quasi duemila anni, sono cambiate molte cose. E anche le due appartenenze, cielo e terra, si sono via via distaccate. La vita dei cristiani non è più così esemplare, così coerente, come quella dei primi seguaci del Vangelo. E’ stato l’uomo ad allontanarsi da Dio, credendo così di poter essere più libero, padrone di sé stesso, delle proprie scelte. Ma sono stati anche i chierici, pretendendo di avere sempre più il monopolio del sacro, ad allontanare l’uomo da Dio. Ed è stata poi la storia, sia con il suo imbarbarimento, le sue tragedie, sia con i suoi indubbi successi scientifici, e le conquiste del suo pensiero, a mettere in discussione la stretta connessione cielo-terra, e, quindi, il concetto stesso di Dio, la sua esistenza.

Ma, a complicare ulteriormente le cose, ci si è messa la dottrina morale, rimasta a metà strada nel suo pur lodevole tentativo di rinnovamento. Una volta aveva come principale campo di investigazione la coscienza e i comportamenti della singola persona; ma, con il tempo, era rimasta invischiata nella logica dei divieti, dei doveri, e in una fedeltà ai principi che, se non maturata interiormente, finiva per essere molto astratta, formale. Così, per uscire da quella “gabbia” legalistica, la morale ha cominciato ad occuparsi della vita sociale, delle sue norme, delle sue leggi, insomma, di tutto ciò che rientra nella dimensione pubblica della Chiesa. Riportando in primo piano uno degli aspetti fondamentali della fede, quello caritativo.

Ci sono i poveri, anzitutto, al centro del Vangelo. Il passaggio però s’è compiuto solo in parte. La coscienza, espropriata della sua funzione primaria, si è sentita sempre più svuotata, smarrita. Ora, infatti, il confronto (e lo scontro) tra il bene e il male si svolgeva altrove, nel mondo. Quindi, fuori della coscienza. Dove, di conseguenza, si attenuava progressivamente la consapevolezza di ciò che comporta l’impegno morale del cristiano. E se è vero che si irrobustiva la percezione del cosiddetto “peccato sociale”, è altrettanto vero che si affievoliva il senso del peccato, inteso prima di tutto, ricordava san Tommaso, come “qualcosa di personale”. Dunque, continuando nella metafora, cielo e terra erano diventati lontani. I credenti facevano sempre più fatica a riconoscere Dio nella propria quotidianità. E, prima ancora, era la Chiesa che sembrava facesse fatica a trasmettere una fede incarnata nella vita degli uomini. L’annuncio evangelico, forse perché appesantito da troppa autorità, da troppe sovrastrutture, non sempre riusciva a ridare speranza all’essere umano, a rispondere alle sue inquietudini metafisiche. Niente, o quasi niente, che colmasse il “vuoto” lasciato dal crollo delle ideologie – come quello, imminente e clamoroso, del marxismo – e dal venir meno della cieca fiducia di un tempo nella scienza.

Eppure, c’era stato un Concilio che aveva ricongiunto cielo e terra. Aveva ridisegnato una nuova immagine di Chiesa, mistero di salvezza, e, nello stesso tempo, aveva delineato nuove relazioni tra Chiesa e mondo. Appunto, le due grandi costituzioni: quella dottrinale, Lumen gentium, e quella pastorale, Gaudium et spes. Con un rovesciamento – specie nel secondo documento – del metodo che per secoli era stato impiegato dai Pontefici per interpretare la realtà, ovvero il metodo classico della neo-scolastica. Adesso, si procedeva a rovescio, si partiva dal basso, dalle situazioni umane, e non più dall’alto, non più dalle enunciazioni scritturistiche, patristiche, dogmatiche, intese come principi generali, assoluti, intoccabili.

I Papi postconciliari hanno trasmesso queste grandi novità al popolo cristiano. Giovanni Paolo II ha tenuto insieme, e sviluppato, le due nuove immagini di Chiesa. Una Chiesa vista nella sua natura trinitaria, ossia come un insieme armonico di unità e molteplicità, di identità e diversità. E una Chiesa vista nella concreta realtà storica, con l’impiego di categorie inedite, proprie della teologia morale, nell’affrontare le problematiche sociali: famiglia, cultura, giustizia, guerra e pace. Poi, è arrivato Benedetto XVI. Un pontificato difficile, complesso, investito da emergenze – Vatileaks, preti pedofili – che forse non erano state sufficientemente valutate in precedenza. Papa Ratzinger, in risposta alla crisi dell’umanesimo, ha raccontato magistralmente di Dio e della sua presenza nella vita degli uomini, come pure ha riproposto l’”abc” del messaggio cristiano. Ma, va anche detto, è rimasto troppo ancorato al piano della fede, alla Chiesa ad intra. E, come del resto aveva fatto da teologo ai tempi del Concilio, non ha mai preso in considerazione la Gaudium et spes, giudicando che la Chiesa non sia “parte” del mondo. Cielo e terra, quindi, nuovamente distanti. Ed ecco Francesco. Ecco un nuovo capovolgimento. Il primo Papa latinoamericano ha ripreso, fintanto ad assolutizzarlo, il metodo induttivo della Gaudium et spes. Si partiva, non più dal “centro”, ma dalle “periferie”; non più dall’Occidente, ma dalla tragica condizione dei poveri, dal Sud del mondo. E, da qui, leggere i “segni dei tempi”. E poi, cercare una soluzione cristiana ai nuovi problemi: come la difesa del creato, come l’esigenza di una fraternità e di una solidarietà universali. La dottrina morale non era più un sistema chiuso, arrivava a toccare temi prima tabù o solo sfiorati: come la possibilità di assumere un atteggiamento di accoglienza e di rispetto per le persone omosessuali. Di fatto, tre Papi in qualche modo diversi. Chi guardava di più al cielo, e chi di più alla terra. Chi ha fatto progredire le aperture conciliari, chi meno, e chi invece sta tentando di svilupparle al massimo. Tre Papi diversi, anche perché – finito il monopolio italiano sul papato – provengono da Paesi diversi, da spiritualità diverse, da culture ed esperienze diverse. Il che potrebbe comunque rappresentare un grande arricchimento per la Chiesa universale, se dietro ci fosse un episcopato all’altezza del drammatico momento storico. E non, come invece è, impreparato tanto nella dottrina quanto nel governo pastorale, restio ai cambiamenti, e composto per lo più da schiere di manager, preoccupati solo di perdere potere, di non avere grane.

Per il Giubileo del Duemila, Giovanni Paolo II aveva chiesto a tutti i vescovi, come esame di coscienza, di far conoscere lo stato di attuazione del Vaticano II nelle loro diocesi, per ripartire da lì in vista di una “nuova evangelizzazione”. Benedetto XVI si è impegnato a fondo per estirpare la piaga della pedofilia: tolleranza zero, numerosi vescovi dimissionati, controlli più stretti; ma a un certo punto ha scoperto che un intero episcopato, quello irlandese, aveva nascosto tutto per anni, intendendo così difendere l’”onore” della Chiesa. Per non parlare di Francesco, contrastato in ogni sua iniziativa da folti raggruppamenti episcopali. Per dirne solo una. Papa Bergoglio ha aperto le porte ai divorziati risposati che vogliono riaccostarsi all’Eucarestia; e invece, ignorando quanto c’è scritto in un documento pontificio, l’Amoris Laetitia, molti vescovi continuano ad imporre a queste coppie di astenersi dall’“intimità sessuale”, e quindi di vivere, pur sotto lo stesso tetto, “come fratello e sorella”.