Come fare una nuova esperienza di Dio

Giovanni Paolo II, per me, è stato il Papa dell’Incarnazione, il Papa che ci ha fatto vedere il volto umano di Dio. Con la sua fede, con la sua missione, con il suo impegno per la difesa di ogni persona, con la santità che ha segnato costantemente la sua esistenza, con il coraggio e la serenità con cui ha affrontato le tante prove, l’attentato, le malattie, e infine la morte, Karol Wojtyla ci ha mostrato come fare una nuova esperienza di Dio, il Dio dell’amore, della misericordia, della tolleranza. E non più quello che era diventato quasi una “caricatura” del Creatore, un Dio vendicativo, nascosto nei cieli, indifferente ai drammi degli uomini; oppure il Dio tipo New Age, il Dio magico, piegato ai propri interessi, a una morale a proprio uso e consumo. Giovanni Paolo II, invece, ci ha testimoniato come l’incontro tra l’uomo e Dio – tra l’azione umana e la risposta divina – avvenga già qui, su questa terra; e, dunque, come la vita, accompagnata dalla fede cristiana, vada vissuta pienamente già qui, ora.

Karol Wojtyla è figlio ed emblema di una Chiesa incarnata nella storia, affrancata da ogni connivenza ideologica e politica. Così, oggi, la Chiesa può scendere in campo e combattere credibilmente la sua “battaglia” in difesa dei diritti umani, a partire dal rispetto della vita, e dei diritti dei popoli. E probabilmente proprio qui, nella strenua difesa che Giovanni Paolo II operò a favore della Polonia di Solidarnosc ma anche degli altri Paesi tenuti prigionieri nell’impero sovietico, andrebbero rintracciate le “origini” dell’attentato al Papa. Una Chiesa che è immagine più trasparente e convincente dell’amore di Dio, della sua misericordia. E, insieme, una Chiesa più vicina agli uomini e ai problemi degli uomini, più coraggiosamente impegnata nella costruzione della pace, della giustizia, e di un’autentica “famiglia” di popoli e nazioni.

A ciò aggiungo un aneddoto personale. A cinquant’anni dall’ordinazione sacerdotale, venne chiesto a Giovanni Paolo II di raccontare il percorso che aveva seguito per arrivare a quella scelta decisiva per la sua vita. E, in quella occasione, fui chiamato anch’io a collaborare al progetto. “Lei – mi disse il Papa – farà da narratore, e io cercherò di ricordare, da testimone, anche con dei semplici flashes”.  Ma poi fu deciso in Vaticano che ci sarebbe stata solo la testimonianza di Giovanni Paolo II. Niente domande. Niente dello “scenario” che avevo elaborato, per aiutare Karol Wojtyla a ricordare, e per inquadrare storicamente il suo racconto. Ne venne fuori ugualmente un bellissimo ritratto autobiografico. Ma, a dir la verità, a me sarebbe piaciuta – e, so, anche al Papa – l’impostazione originaria. L’inizio, ad esempio. Il libro parte con un interrogativo: “La storia della mia vocazione sacerdotale?”. Io, invece, avrei cominciato con una immagine forte, precisa, che desse immediatamente il senso della decisione che quel giovane polacco stava per prendere.

E dunque, sarei partito da quel giorno d’ottobre del 1942. Karol aveva lavorato tutto la notte alla Solvay. Quando se ne andò, al mattino, neppure si cambiò: aveva una camicia ormai lisa, dei calzoni color grigio, e gli zoccoli ai piedi (un particolare che il Papa non ricordava).  Si vedeva che quel giovane aveva una gran fretta; ma, come sempre, entrò in una chiesa per assistere alla Messa. Alla fine, anziché andare a casa, si diresse verso il centro di Cracovia, con i soldati tedeschi che non facevano caso a quell’operaio a testa bassa, immerso nei suoi pensieri. Finché Karol arrivò all’arcivescovado, a via Franciszkanska, si presentò al rettore del seminario (allora clandestino) e chiese di essere ammesso come candidato al sacerdozio.