Opinione

Cento anni fa la marcia su Roma: l’inizio della cosiddetta “era fascista”

Il 28 ottobre del 1922 15.000-20.000 camice nere, guidate da Emilio De Bono, Italo Balbo, Cesare De Vecchi e Michele Bianchi, retoricamente chiamati “quadrunviri”, provenienti da diverse regioni d’Italia, convergono a Roma da diverse direzioni, su camion e treni speciali requisiti con la forza. Benito Mussolini, quattro giorni prima, in un grande raduno a Napoli l’aveva preparata e preannunciata, anche se, alla vigilia aveva preferito restare a Milano e giungerà a Roma in vagone letto, dopo il successo non scontato dell’atto di forza, dovuto al cedimento del re Vittorio Emanuele III, che si rifiutò di firmare lo stato d’assedio nella Capitale, pur difesa da truppe del regio esercito, ben più numerose, addestrate ed equipaggiate delle colonne fasciste.

Nell’Italia dell’inquieto dopoguerra è presente una grave situazione economica e sociale, connotata dalla difficile riconversione dalla produzione bellica a quella civile e, da questa alimentata, da una forte conflittualità sociale tra i lavoratori dell’industria e delle campagne, ai quali sono pervenuti anche gli echi della Rivoluzione socialista in Russia.

Anche se la ricerca storica più matura e documentata ha negato la connotazione rivoluzionaria del cosiddetto biennio rosso del 19-20, culminato nell’ondata di occupazione e delle fabbriche, a partire dalla Fiat di Torino, è indubbio che la Confederazione generale del lavoro di matrice socialista che la Confederazione italiana dei lavoratori, fondata nel 1918, d’ispirazione social-cristiana hanno un rapido sviluppo organizzativo: rispettivamente 2 milioni e 1milione e 200 iscritti.

Sul piano politico istituzionale, nonostante il rientro sulla scena politica di Giovanni Giolitti, si assiste all’esaurirsi da parte del vecchio ceto liberale della capacità di dirigere la macchina dello Stato, fortemente ristrutturata in senso autoritario durante i lunghi anni di guerra e ancor meno a controllare le nuove dinamiche sociali e culturali.

Alle elezioni del 1919, che si tengono per la prima volta con il suffragio universale (maschile) e con il metodo proporzionale, il Partito socialista italiano e il Partito popolare italiano, interclassista, ma non confessionale e convintamente riformatore, appena fondato da don Luigi Sturzo, ottengono grande successo elettorale. Entrano in parlamento 156 deputati socialisti e 100 popolari. Una forte instabilità politico-istituzionale caratterizza gli anni del dopoguerra. La causa prima è la mancata intesa di questi due partiti, per pregiudiziali ideologiche più che politiche, nonostante entrambi siano espressione dei ceti popolari italiani desiderosi di uscire dalla marginalità in cui li aveva tenuti lo Stato postunitario liberale.

Dalla fine della guerra, fino alla marcia su Roma e all’ascesa di Mussolini, in rapida successione, si succedono i governi di Vittorio Emanuele Orlando, Francesco Saverio Nitti, Giovanni Giolitti, Ivanoe Bonomi e Luigi Facta. Nel 1921 si tengono elezioni anticipate nelle quali i socialisti perdono alcuni seggi, mentre i popolari ne guadagnano sette.

La novità è costituita dall’ingresso in parlamento di 16 deputati del Partito comunista, fondato nel gennaio dello stesso anno a seguito di una scissione a sinistra dal Partito socialista, e 35 del movimento fascista, creato da Mussolini nel 1919 che mobilita e organizza militarmente gruppi crescenti di ex combattenti, delusi per la cosiddetta vittoria mutilata, giovani nazionalisti, studenti, sprezzanti, a partire dalla propaganda di Gabriele D’Annunzio, nei confronti dell’imbelle “Italietta” di Giolitti e nemici giurati degli universi culturali e ideali dei socialisti e dei popolari.

Il 1921-22, passato alla storia come il “biennio nero” è caratterizzato dal susseguirsi di azioni violente e armate delle squadre fasciste delle “camice nere”, dal colore della nuova divisa, per una sistematica aggressione-distruzione di case del popolo, camere del lavoro, leghe bianche e rosse, amministrazioni comunali, sedi di giornali, sedi sindacali. L’idea della violenza come strumento di lotta politica, interiorizzato anche a seguito della consuetudine con la morte data e subito nei lunghi anni di guerra al fronte, diventa pratica diffusa e normale, grazie anche alla sostanziale acquiescenza delle autorità politiche e militari.

La Marcia su Roma il 28 ottobre, con il proposito di conquistare la capitale, è la conclusione di questo processo, non una recita teatrale, come, per molti aspetti fu l’impresa di Fiume dei legionari di Gabriele D’Annunzio. Pur temendo qualche rischio i suoi promotori, che l’avevano programmata meticolosamente nell’estate, la portarono a termine vittoriosamente, anche perché gran parte della classe dirigente non comprese che era in atto una rivoluzione, come orgogliosamente il Fascismo la visse e la interpretò individuando in essa il fondamento del regime e persino l’inizio della cosiddetta “era fascista”.

Durante questa crisi, ha scritto Artuto Carlo Jemolo, nel suo magistrale libro, Chiesa e Stato in Italia, «la gerarchia ecclesiastica restò assente e col cuore in sospeso». Padre Giovanni Sale nell’ultimo quaderno di La Civiltà cattolica, nel denso saggio, A cento anni dalla Marcia su Roma, ha scritto: “Quale atteggiamento assunse il neoeletto pontefice Pio XI nei confronti del nuovo governo fascista? Possiamo affermare che essa, pur non assolvendo il fascismo per le violenze commesse, cercò di dare fiducia a Mussolini, nella speranza che riuscisse a “cristianizzare” il partito che si credeva dominato dalla massoneria e, partendo dalla sua posizione di forza, riuscisse a dare uno sbocco soddisfacente alla Questione Romana”.

Il dato più importante e scandaloso è, tuttavia, che il re, non solo non firmasse il decreto d’assedio ma, affidò l’incarico di formare un nuovo governo e, persino, fece sfilare per le vie del centro di Roma le squadre fasciste come un esercito trionfante.

Illuminante al riguardo è un passaggio del discorso tenuto alla camera dei deputati da Mussolini, il 16 novembre, ormai capo del governo: “Potevo fare di quest’aula sorda e grigia un bivacco di manipoli: potevo sprangare il Parlamento e costituire un Governo esclusivamente di fascisti. Potevo: ma non ho, almeno in questo primo tempo, voluto”.

Carlo Felice Casula

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