Una civiltà di morte che calpesta i diritti di Dio

Chi “ama la vita”, chi “dà la vita”, come il popolo del Sud Italia, “non può vivere sempre sotto la pressione di una civiltà della morte“. Sono passati venticinque anni da quando Giovanni Paolo II, oggi santo, pronunciava queste parole nell'incantevole scenario della Valle dei Templi di Agrigento. Un messaggio, quello del Pontefice polacco, che arrivava al termine della sua visita pastorale in Sicilia, destinato ad entrare nella storia: per la prima volta il Papa, il Vicario di Cristo in terra, il capo supremo della Chiesa Cattolica, pronunciava pubblicamente la parola “mafia“, condannandone ogni attività.

Rabbia e speranza

 Era il 9 maggio 1993: solo un anno prima Cosa nostra aveva brutalmente assassinato i giudici Falcone e Borsellino. Ma il coraggio e la tenacia dimostrata dai due magistrati, e i sempre maggiori sforzi degli inquirenti nel debellare questa piaga sociale, fanno nascere in molti strati della società una sensibilità diversa, fino a raggiungere i vertici della Chiesa. E' in questo contesto che Papa Wojtyla alzava un forte grido contro gli uomini d’onore. Fino ad allora nessun Pontefice aveva mai condannato così apertamente, e con toni aspri, il fenomeno mafioso: “Non si dimentica facilmente una tale celebrazione, in questa Valle, sullo sfondo dei templi. Uno ha avuto nome di ‘Concordia’: ecco, sia questo nome emblematico, sia profetico. Che sia concordia in questa vostra terra! Concordia senza morti, senza assassinati, senza paure, senza minacce, senza vittime! Che sia concordia! Questa concordia, questa pace a cui aspira ogni popolo e ogni persona umana e ogni famiglia!”. Il Santo Padre era consapevole delle sofferenze che il popolo siciliano stava subendo ed era fermamente convito che quella gente, testimone di numerose uccisioni di cittadini onesti, avesse  “diritto a vivere nella pace”. Chi disturba questa pace, affermava Wojtyla, è “colpevole” di portare sulla propria coscienza “tante vittime umane”. Poi, per la prima volta, la pronuncia della parola “mafia”, in pubblico, da parte di un Papa: “Non si uccidono gli innocenti! Dio ha detto una volta: ‘Non uccidere’. Un uomo qualsiasi, o una qualsiasi umana agglomerazione, mafia, non può cambiare e calpestare questo diritto santissimo di Dio!”. La folla presente batteva le mani in segno di approvazione. E, aggrappandosi al pastorale che recava in mano, e con il dito alzato, urlava: “Qui ci vuole una civiltà della vita! Nel nome di questo Cristo, crocifisso e risorto, che è vita, dico ai responsabili: convertitevi! Una volta verrà il giudizio di Dio!”. Per la Sicilia, e per tutto il Mezzogiorno, quelle parole suonavano come un grido di speranza per quella terra a tratti dimenticata dalle Istituzioni. I mafiosi, dal canto loro, iniziavano ad avvertire un vento contrario nei loro confronti proprio da parte di quella Chiesa che fino a pochi decenni prima aveva taciuto i mali dell’organizzazione.

Una bomba contro la Cattedra del Papa

L'appello alla conversione non fu ascoltato. I così detti uomini d'onore, infatti, si ritenevano, come si ritengono tutt'oggi, fervidi credenti, cattolici devoti alla madre Chiesa. Le parole di Wojtyla suonarono come un tradimento, tanto da portare Cosa nostra ad agire a Roma. La notte tra il 27 e il 28 luglio del 1993, due bombe al tritolo vengono fatte esplodere nella Capitale, una davanti la basilica di San Giovanni in Laterano, l’altra nella chiesa di San Giorgio al Velabro. Un attacco mirato che segna però un confine netto tra mafia e Chiesa: la reazione della “cupola” alle parole di Giovanni Paolo II tolse ogni dubbio all’ambiguità tra la religione cristiana e la mafia. Non per altro la prima delle due bombe, confezionate con lo stesso materiale plastico della strage di Capaci, esplodeva al Laterano, la Cattedrale della “città eterna”, li dove da secoli viene custodita la “cattedra” del Papa, il luogo dal quale il Pontefice esercita il suo magistero di pastore.

L'omicidio Impastato

Pura casualità, o semplice coincidenza, il grido di Papa Wojtyla risuonava tra le colonne dei templi di Agrigento a quindici anni esatti dall'assassinio di Giuseppe Impastato, per gli amici Peppino, anch'esso vittima dell'ira cieca di Cosa nostra. Il suo omicidio non rimbalzò sulle prime pagine dei quotidiani nazionali perché lo stesso giorno le Brigate Rosse uccidevano l'onorevole Moro, il cui corpo venne ritrovato in via Caetani, a Roma. Lo Stato e l'Italia tutta piangeva il suo statista; la Sicilia piangeva un altro giovane figlio che aveva lottato contro quella che lui stesso, in un articolo pubblicato sul foglio ciclostilato “L’idea socialista” nel 1966, aveva definito “una montagna di merda”. Lo gridava ai microfoni di Radio Aut, durante il suo programma Onda Pazza: “Noi ci dobbiamo ribellare. Prima che sia troppo tardi!”. Giornalista e attivista politico, Peppino con la mafia ci crebbe. A Cinisi, suo paese natale, solo cento passi dividevano casa sua dall'abitazione di Gaetano Badalamenti, boss di Cosa nostra che aveva un ruolo di primo piano nei traffici internazionali di droga attraverso il controllo dell'aeroporto di Punta Raisi. Alcuni membri della sua famiglia facevano parte di quel mondo che Peppino rigettava, denunciando i rapporti tra mafia e istituzioni locali in una maniera nuova. Attraverso un linguaggio pungente e ironico sbeffeggiava gli uomini d'onore. Celebre il soprannome dato al boss del suo paese, “Tano Seduto“. Nel 1978 si candidava nella lista di Democrazia Proletaria alle elezioni provinciali, di cui non saprà mai l'esito delle votazioni. Aveva ignorato gli avvertimenti della “cupola”. Fu disteso sui binari della ferrovia con sotto una carica di tritolo. Magistratura, forze dell'ordine e tutta la stampa parlarono di un atto terroristico in cui l'attentatore sarebbe rimasto ucciso. Venne fatto passare per kamikaze contro l'evidenza che quello non poteva essere un attentato finito male. Accanto ai binari, infatti, c'era la pietra sporca di sangue con la quale era stato stordito; le sue mani erano integre. La matrice mafiosa di quel delitto venne individuata grazie all'attività del fratello Giovanni e della madre Felicia Bartolotta, aiutati dai compagni di militanza del giovane Impastato. Solo nel 2002 venne fatta completamente giustizia, quando Tano Badalamenti venne riconosciuto colpevole e condannato all'ergastolo. Giovanni Falcone diceva: “la mafia è un fenomeno umano e come tutti i fenomeni umani ha un principio, una sua evoluzione e avrà quindi anche una fine”. Ma quest'ultima parte dipende soprattutto da noi.