Strage in Libia, l'appello del Papa: “Intollerabile, si attivino corridoi umanitari”

La Comunità internazionale non può tollerare fatti così gravi”. In questi termini Papa Francesco, al termine dell'Angelus domenicale, parla della strage avvenuta alcuni giorni fa nel campo di detenzione di Tajoura, in Libia, bombardato da due raid aerei e raso al suolo, con oltre 50 morti fra i migranti che lì dentro attendevano, coltivando speranze a stretto contatto con una sofferenza quotidiana. Una condanna accmopagnata dalla sua preghiera costante e seguita da un appello: “Auspico che siano organizzati in modo esteso e concertato i corridoi umanitari per i migranti più bisognosi. Ricordo anche tutte le vittime delle stragi che recentemente sono state compiute in Afghanistan, Mali, Burkina Faso e Niger“. Un'invocazione a volgere lo sguardo in direzione di quelle “persone inermi” che, in contesti di estrema emergenza umanitaria, subiscono gli effetti di una violenza efferata, insensata, che semina morte spazzando via anche i più piccoli residui di speranza, quella di chi sfida la sorte alla ricerca di una vita degna di tale nome.

Gli “imperativi” della missione

Un appello accorato, al termine di un Angelus in cui il Santo Padre ha condiviso una riflessione sui settantadue discepoli inviati in missione da Gesù, parlando di una richiesta che è sempre valida: “Sempre dobbiamo pregare il 'padrone della messe', cioè Dio Padre, perché mandi operai a lavorare nel suo campo che è il mondo. E ciascuno di noi lo deve fare con cuore aperto, con un atteggiamento missionario; la nostra preghiera non dev’essere limitata solo ai nostri bisogni, alle nostre necessità: una preghiera è veramente cristiana se ha anche una dimensione universale”. E l'incoraggiamento alla missione comprende “istruzioni precise”: pregare, andare, non portare né borsa né sacca. Imperativi che “mostrano che la missione si basa sulla preghiera; che è itinerante; che richiede distacco e povertà; che porta pace e guarigione, segni della vicinanza del Regno di Dio; che non è proselitismo ma annuncio e testimonianza; e che richiede anche la franchezza e la libertà evangelica di andarsene evidenziando la responsabilità di aver respinto il messaggio della salvezza, ma senza condanne e maledizioni”.

Un dono

Ecco perché, ha concluso il Pontefice, “se vissuta in questi termini, la missione della Chiesa sarà caratterizzata dalla gioia”. E, allo stesso modo, si concretizzerà quella “gioia interiore e indistruttibile che nasce dalla consapevolezza di essere stati chiamati da Dio a seguire il suo Figlio. Cioè la gioia di essere suoi discepoli”. Ed è proprio la gioia di questo dono “che fa di ogni discepolo un missionario, uno che cammina in compagnia del Signore Gesù, che impara da Lui a spendersi senza riserve per gli altri, libero da sé stesso e dai propri averi”.