Papi e immigrazione: oltre i luoghi comuni

Un popolo che può accogliere ma non ha possibilità di integrare, meglio non accolga”. Le parole pronunciate da Papa Francesco nel corso dell'incontro avuto con i giornalisti sul volo di ritorno da Dublino hanno al centro quell'“accogliere ragionevole” che riafferma la posizione tradizionale della Chiesa cattolica sul fenomeno delle migrazioni. Nel corso del Novecento, il secolo maggiormente contrassegnato dal fenomeno, i pontefici, mostrando sempre una speciale sollecitudine nei confronti degli ultimi, non hanno mai predicato l'esaltazione generalizzata dei flussi migratori. La Chiesa non può che riservare un occhio particolarmente benevolo nei confronti di chi è costretto o sceglie di abbandonare la propria terra; un atteggiamento pastorale originato dalla sua naturale vocazione a dare voce ai poveri, ai deboli e agli emarginati. Tuttavia, nessuno dei papi sino ad oggi ha dimostrato di considerare la migrazione come un fatto intrinsecamente positivo: tutti loro, infatti, hanno tenuto a sottolineare la carica drammatica del fenomeno per i rischi fisici vissuti nei lunghi e difficili viaggi, per la conseguente separazione dei nuclei familiari, per la sofferenza scaturita dallo sradicamento culturale e dall'emarginazione sociale. Pur perseguendo sempre il primato della carità e la difesa della dignità della persona, la Chiesa cattolica non ha mai contestato il diritto dei governi di intervenire per regolare i flussi migratori che riguardano i confini del proprio territorio. Il magistero dei papi del Novecento e del Duemila, però, ha messo in guardia i governanti dalla fragilità di una risposta legislativa che si limita alla chiusura delle frontiere e ai respingimenti. Al tempo stesso, in nome dello spirito di verità, questi grandi pastori hanno scelto di rivolgersi con chiarezza e schiettezza a coloro i quali scelgono di migrare, considerandoli testimonianza viva del Vangelo, ma avvertendoli del pericolo di cadere nelle facili illusioni scaturite dalla cultura del benessere, senza nascondere loro la prospettiva di una realtà dolorosa, fatta spesso di esclusione sociale e smarrimento valoriale.

Pio X

Siamo abituati a pensare all'emigrazione come un problema dei tempi odierni. Eppure non è così e per ricordarcelo potrebbe servire la rilettura di un testo del 1887 scritto da quello che sarebbe diventato poco più di un decennio più tardi papa Pio X. Giuseppe Sarto, all'epoca vescovo di Mantova, scrive una lettera ai sacerdoti di una diocesi che stava cominciando a conoscere un processo di spopolamento dovuto ai primi trasferimenti all'estero dei suoi abitanti. A questi, l'allora vescovo raccomanda di non far mancare mai “direzione, consiglio e aiuto” a chi emigra, dando prova dell'applicazione dell'autentica carità cristiana. “Io come padre delle anime devo pur lamentare la partenza di tanti miei figli (…) indotti dall'indigenza, piuttostochè dalla loro volontà, carichi di famiglia e costretti a trascinare una vita piena di ansietà e sofferenze”. Nel documento, il futuro Pio X sollecita i presbiteri mantovani a far cambiare idea a quei parrocchiani che covano nel cuore l'intenzione di partire, mettendoli in guardia dal “facile entusiasmo” perchè “tutta intera la vita non basterebbe forse a riparare le conseguenze di un passo funesto”. La lettera di Sarto fa poi emergere l'esistenza, già all'epoca, di consorterie malaffaristiche determinate a realizzare profitti sulla sofferenza e sulle speranze dei migranti: “Non è la prima volta – si legge nello scritto – che poveri contadini eccitati da agenti di case speculatrici e da impresari di emigrazione mentre si aspettavano di trovare il favoloso paese dell'oro, nonché veder infrante le stipulazioni, per solito puramente verbali, si riconobbero nel lungo tragitto e nelle terre promesse vittime di inganni, per cui, fuggendo la miseria del luogo nativo, incontrarono miserie ben più strazianti lungi dalla terra dei loro padri”. Ai fedeli più disperati, disposti ad abbandonare la loro casa d'origine pur di conquistare una condizione di vita dignitosa, il futuro pontefice consiglia di non sacrificare “quellalibertà, che è il bene più prezioso dell'uomo”.

Pio XII

Che la Chiesa abbia riconosciuto anche in passato, davanti a situazioni emergenziali, la possibilità di una regolazione governativa dei flussi migratori lo dimostra il contenuto di un discorso tenuto da Pio XII il 13 marzo 1946 a Ugo Carusi, commissario per l'immigrazione del Dipartimento di giustizia Usa. In quel preciso momento storico, la fine della seconda guerra mondiale aveva lasciato milioni di europei nella povertà più assoluta. La prevedibile ondata migratoria scaturita da queste drammatiche condizioni doveva fare i conti, però, con la perdurante politica di chiusura delle frontiere adottata dalle autorità statunitensi dopo la crisi del '29. Pio XII, rivolgendosi al delegato di Washington, non sconfessa la linea perseguita dal governo che rappresenta. Pur ricordando il “grande contributo alla difesa e all'accrescimento della nazione, dato all'immigrazione straniera”, Pacelli afferma: “Non stupisce, però, che le mutate circostanze abbiano portato restrizioni circa l'immigrazione, poiché in questo campo si ha da tenere presente non solo l'interesse dell'immigrato, ma anche il benessere della nazione”.

Giovanni XXIII e Paolo VI

I papi del Concilio si trovarono ad affrontare per primi il cambio di direzione del fenomeno migratorio, non più 'da' ma 'verso' l'Europa. Lo fecero insistendo, prima di tutto, affinché gli Stati d'approdo riconoscessero ai nuovi arrivati tutti i diritti relativi alla persona che non decadono certo con la partenza dalla terra d'origine. In un'epoca in cui la perdita di cittadinanza comportava spesso anche quella di ogni tutela, il pontefice bergamasco scrive che “non è superfluo ricordare che i profughi politici sono persone; e che a loro vanno riconosciuti tutti i diritti inerenti alla persona; diritti che non vengono meno quando essi siano stati privati della cittadinanza nelle comunità politiche di cui erano membri”. Mentre Papa Montini, con uno sguardo profetico, determinò una svolta nell'indirizzo delle attività pastorali che dopo di lui iniziano ad operare anche in aiuto dei migranti. Paolo VI riesce ad ottenere, infatti, che alla “mobilità del mondo contemporaneo” sia consequenziale “la mobilità della pastorale della Chiesa”. Ma i due papi del Concilio indicano nel loro magistero anche la via più corretta per facilitare il cammino dell'integrazione. Il 20 dicembre 1961, in un discorso al Supremo Consiglio di Emigrazione, Papa Giovanni XXIII si sofferma sui doveri dell'immigrato: “Deve accettare dal nuovo Paese le sue caratteristiche particolari, impegnandosi inoltre a contribuire con le proprie convinzioni e col proprio costume di vita allo sviluppo ordinato della vita di tutti”. Due anni più tardi, nell'enciclica “Pacem in Terris” si ritrova la confutazione del topos semplicistico in base al quale la Chiesa avrebbe dell'immigrazione un giudizio esclusivamente positivo; Roncalli, infatti, scrive: “Crediamo opportuno di osservare che, ogniqualvolta è possibile, pare che debba essere il capitale a cercare il lavoro e non viceversa”. “In tale modo – continua Giovanni XXIII – si offrono a molte persone possibilità concrete di crearsi un avvenire migliore senza essere costrette a trapiantarsi dal proprio ambiente in un altro; il che è quasi impossibile che si verifichi senza schianti dolorosi, e senza difficili periodi di riassestamento umano o di integrazione sociale”. A Paolo VI, invece, si deve forse il testo che costituisce la pietra miliare della Chiesa cattolica sull'immigrazione, la “Populorum Progressio”. L'enciclica montiniana, esaltando il valore della solidarietà e della fraternità tra popoli, rappresenta una lucidissima fotografia di quelli che sono i mali originari da cui scaturisce poi la necessità di abbandonare la propria terra in cerca di condizioni più vantaggiose: il profitto eretto a motore essenziale del sistema economico, gli abusi del liberismo sfrenato che penalizzano le economie dei Paesi del Terzo Mondo, la miopia degli organismi internazionali.

Giovanni Paolo II

Durante il lungo pontificato di Giovanni Paolo II l'immigrazione comincia ad assumere le dimensioni di sfida epocale dei tempi odierni. E' Papa Wojtyla stesso a definirla tale, invitando i credenti ad affrontarla con spirito evangelico e senso di responsabilità. Mentre il Vecchio Continente, in crisi di fede ed identità, viene travolto da un movimento di popoli dai connotati emergenziali, Giovanni Paolo II fa ricorso al suo carisma per convincere gli Stati europei a non cedere alla tentazione della paura e dell'insicurezza. Il Papa polacco rende familiari a tutti i fedeli le condizioni dei disperati che arrivano dal mare con parole profonde: “Gesù – scrive – ha voluto prolungare la sua presenza fra noi nella precaria condizione dei bisognosi, tra i quali egli annovera esplicitamente i migranti”. Tuttavia, nemmeno “l'uomo venuto da lontano” predica un'accoglienza illimitata e deresponsabilizzata; al contrario, anche Giovanni Paolo II auspica una regolamentazione legislativa in grado di arginare il fenomeno dell'immigrazione illegale e dello sfruttamento perpetrato dalle organizzazione criminali. Lo fa in un messaggio del 25 luglio 1995 rilasciato per la Giornata Mondiale dell'Emigrazione: “Oggi – scrive il Papa – il fenomeno dei migranti irregolari ha assunto proporzioni rilevanti, sia perché l'offerta di manodopera straniera diventa esorbitante rispetto alle esigenze dell'economia, che già stenta ad assorbire quella interna, sia a causa del dilatarsi delle migrazioni forzate. La necessaria prudenza che la trattazione di una materia così delicata impone non può sconfinare nella reticenza o nell'elusività; anche perché a subirne le conseguenze sono migliaia di persone, vittime di situazioni che sembrano destinate ad aggravarsi, anziché a risolversi”. Con realismo, Giovanni Paolo II dimostra di non ignorare l'esistenza di un business criminale che si regge sulle spalle delle sofferenze di chi sale sui barconi: “L'immigrazione illegale va prevenuta, ma occorre anche combattere con energia le iniziative criminali che sfruttano l'espatrio dei clandestini”. Ritenendo necessario l'intervento governativo per fermare queste speculazioni e per disciplinare i flussi, Wojtyla ammette che “allorché non si intraveda alcuna soluzione, quelle stesse istituzioni dovrebbero orientare i loro assistiti, eventualmente anche fornendo un aiuto materiale, o a cercare accoglienza in altri paesi o ariprendere la strada del ritorno in patria”. Un concetto poi ribadito nell’esortazione apostolica “Ecclesia in Europa” del 2003 dove si legge: “E’ responsabilità delle autorità pubbliche esercitare il controllo dei flussi migratori in considerazione delle esigenze del bene comune”. “L’accoglienza – precisa il testo – deve sempre realizzarsi nel rispetto delle leggi e quindi coniugarsi, quando necessario, con la ferma repressione degli abusi”.

Benedetto XVI

Nel solco del suo amato predecessore, Papa Ratzinger sprona la comunità cattolica a non rimanere indifferente davanti al “calvario” di chi sceglie la strada del mare. Quella dell'emigrazione – secondo Ratzinger – è una tragedia che la Chiesa deve sentire propria perchè “guarda a tutto questo mondo di sofferenza e di violenza con gli occhi di Gesù, che si commuoveva davanti allo spettacolo delle folle vaganti come pecore senza pastore”. Per alleviare le sofferenze di questi “fratelli e sorelle”, c'è bisogno di un “impegno umano e cristiano” ispirato, dice il pontefice bavarese, da “speranza, coraggio, amore e altresì fantasia della carità”. Di Benedetto XVI si ricorda frequentemente quel “diritto a non emigrare” proclamato nel messaggio per la 99esima Giornata del migrante e del rifugiato nel 2012. Sebbene sia la più famosa, non è stata quella l’unica occasione in cui il Papa teologo si è espresso sul tema dell’immigrazione. Da cardinale, Ratzinger non aveva nascosto di guardare con favore alla possibilità che gli Stati cominciassero a limitare il numero di sbarchi sulle coste del proprio territorio. In un’intervista del 2001 a Figaro Magazine, infatti, l’allora prefetto dell’ex Sant’uffizio sosteneva che “ogni governo, anche il più aperto, non può accettare tutti gli immigrati. Bisogna dunque distinguere quelli che possono arrivare e gli altri”. Sposando la celebre tesi del cardinal Biffi, Ratzinger affermava: “A partire dal momento che delle scelte sono inevitabili, bisogna accettare in primo luogo – in vista della pace civile delle nostre società europee – i gruppi che sono più integrabili, i più vicini alla nostra cultura”. “Definire i criteri – diceva il cardinale – permette l’unità di un Paese e consente la pace sociale, è l’interesse di tutti”. Eletto pontefice, Ratzinger non cambia linea e di fronte all’aumento degli arrivi si esprime con la consueta chiarezza, affondando il colpo contro il lato più oscuro di quelle traversate: “Senso di responsabilità devono mostrare anche i Paesi di origine, non solo perché si tratta di loro concittadini, ma anche per rimuovere le cause di migrazione irregolare, come pure per stroncare, alle radici, tutte le forme di criminalità ad essa collegate”. E al tempo stesso, avendo a cuore prima di tutto l’incolumità dei migranti, esorta a sensibilizzarli “sul valore della propria vita, che rappresenta un bene unico, sempre prezioso, da tutelare di fronte ai gravissimi rischi a cui si espongono nella ricerca di un miglioramento delle loro condizioni e sul dovere della legalità che si impone a tutti”. Nel famoso discorso sul “diritto a non emigrare”, pronunciato nel 2012, Benedetto XVI riafferma ancora una volta come la Chiesa riconosca ad “ogni Stato il diritto di regolare i flussi migratori e di attuare politiche dettate dalle esigenze generali del bene comune” sebbene non debba mai essere messo in discussione “il rispetto della dignità di ogni persona umana”. Ratzinger insiste poi sulla questione dell’immigrazione regolare, “tema tanto più scottante nei casi in cui essa si configura come traffico e sfruttamento di persone, con maggior rischio per donne e bambini”. “Tali misfatti – scrive il Papa – vanno decisamente condannati e puniti, mentre una gestione regolata dei flussi (…) potrebbe almeno limitare per molti migranti i pericoli di cadere vittime dei citati traffici”.

Francesco

Quello attuale è forse il pontefice che più di tutti si è speso per richiamare ai valori della solidarietà e dell'ospitalità nei confronti dei migranti. Lo fa, utilizzando espressioni d'effetto come quando dice che è “Cristo stesso” a chiederci “di accogliere i nostri fratelli e sorelle migranti e rifugiati con le braccia ben aperte”. Bergoglio esorta all'incontro con l'altro, a non lasciare che le comprensibili “condizionino le nostre scelte, compromettano il rispetto e la generosità, alimentino l'odio e il rifiuto”. Le tragedie del Mediterraneo chiamano in causa i cristiani a cui il Signore, sostiene il pontefice argentino, chiede di “sporcarsi le mani” e di applicare il Vangelo facendo ricorso alla misericordia e alla solidarietà. Ma lo stesso Papa Francesco, anche prima della conferenza stampa di ritorno dall’Irlanda, aveva riconosciuto in alcune occasioni la necessità di subordinare l’accoglienza all’integrazione. Nel novembre 2016 aveva sostenuto che “chiudere il proprio cuore è male, ma se un Paese può integrare solo 20 rifugiati, quelli deve accogliere e non di più”. In più circostanze, poi, Papa Francesco ha fatto accenno alla “prudenza del governante” a cui fare ricorso nel decidere se ospitare o meno un rifugiato alla luce delle possibilità d’integrazione che gli si offrono. Le parole pronunciate da Bergoglio sul volo di ritorno da Dublino domenica scorsa non fanno che riproporre, dunque, quella che è la linea di sempre della Chiesa cattolica sul tema dell’immigrazione, così come è stata sostenuta con forza e chiarezza dai suoi predecessori. Una linea segnata da alcuni principi di fondo: difesa del valore della vita, rispetto della dignità umana, solidarietà verso i più deboli ma anche senso di responsabilità, definizione di criteri precisi per l'integrazione ed il riconoscimento al potere statale di regolamentare i flussi verso i propri confini territoriali.