Padre Lombardi: “Ratzinger papa verde”

Benedetto

Mentre il Sinodo dei vescovi sull’Amazzonia arricchisce il magistero ecologico del pontificato di Francesco, padre Federico Lombardi ricorda che Joseph Ratzinger era chiamato anche “Papa verde”. L'attenzione del Vaticano per l'ambiente, che vede nell'enciclica di Papa Francesco Laudato sì uno dei momenti più forti, era già stata messa in risalto nei richiami e discorsi di Benedetto XVI, ha ricordato padre Federico Lombardi, presidente della Fondazione vaticana Joseph Ratzinger-Benedetto XVI, intervenendo al seminario di studio “Le sfide della regione panamazzonica” in corso in Vaticano nell'ambito delle iniziative organizzate per il Sinodo dei vescovi sull'Amazzonia, riferisce l’Ansa. “Ci sono tanti spunti che anche Papa Benedetto aveva dato sul tema, la cura della casa comune – ha detto padre Lombardi-. Ricordiamo anche la sua  enciclica Caritas in Veritate. In alcuni momenti Benedetto XVI è stato definito il “Papa verde” proprio perché parlava spesso di questioni ambientali ed ecologiche”.

L'episcopato come paternità

Per Joseph Ratzinger, al centro della paterna azione di un vescovo, non poteva non esserci la consapevolezza della responsabilità, per la Chiesa tutta, di dover testimoniare la verità e denunciare le ingiustizie e le ferite dell’umano, sia quelle sociali, figlie di uno sviluppo economico iniquo, sia quelle valoriali e antropologiche, figlie di una ragione narcisista e troppo piena di sé per alzare lo sguardo di fronte al Mistero. Al ruolo di vescovo attribuiva, quindi, come prima responsabilità, quella dell’edificazione della Chiesa come famiglia di Dio e luogo di aiuto vicendevole e di disponibilità in linea con la missione di custodire la comunione ecclesiale e promuoverla e difenderla vigilando costantemente sul gregge.  Come fa un bravo padre di famiglia, chi guida una diocesi doveva essere in grado di dimostrare discernimento, coraggio apostolico e paziente bontà nel cercare di convincere e di coinvolgere, affinché le sue indicazioni fossero accolte di buon animo ed eseguite con convinzione e prontezza. Fare il vescovo non era affatto facile e svolgere il ministero episcopale significava nutrire il gregge del Signore: ministero d'amore vigile, che esigeva totale dedizione fino all’esaurimento delle forze e, se necessario, al sacrificio della vita. Il senso del quarantennale ministero episcopale di Joseph Ratzinger-Benedetto XVI si fondò, quindi, su quattro pilastri: cura pastorale, vicinanza al gregge, incontro con Cristo, amore della verità. Dopo due decenni di insegnamento al corso di laurea in Servizio sociale all’Università Cattolica di Milano, il sociologo Francesco Belletti ha prima presieduto, negli anni del pontificato di Benedetto XVI, il Forum del Forum delle associazioni familiari e ora dirige il Cisf, il Centro internazionale di studi sulla famiglia. Nessuno meglio di lui può scavare nel Ratzinger “pater familias”. “Trent’anni di esperienza in prima linea, a favore della famiglia, lo hanno portato a “vivere, interagire e lavorare in ambito ecclesiale a livello nazionale e internazionale”.  Secondo papa Ratzinger il principale compito del pastore era quello di proteggere e rassicurare il gregge, perciò la sua eredità più preziosa lasciata alla Chiesa e a tutta la società è stata “la tranquilla e argomentata certezza che la fede e l’esperienza religiosa fossero perfettamente ragionevoli” e che tale ragionevolezza fosse comprensibile da ogni persona di buona volontà. L’alleanza tra fede e ragione (e quindi tra fede e scienza, tra fede e contemporaneità, tra credenti e non credenti) ha caratterizzato il pacato magistero di un grande intellettuale a livello mondiale, a giudizio del professor Belletti, che descrive papa  Ratzinger come una persona sicura che il “retto intelletto” potesse consentire a ogni uomo di confrontarsi sulle grandi questioni dell’umano, senza escludere nessuno: bastava essere sinceri e rigorosi davanti a tali domande. 

L’origine conciliare dell’impostazione ratzingeriana

Al Concilio Vaticano II Joseph Ratzinger ha lavorato molto e bene dietro le quinte, tanto da ottenere il riconoscimento di Yves Marie-Joseph Congar, insigne teologo e poi cardinale francese che insieme a Jean Daniélou e Henri de Lubac fu uno dei precursori della nuova teologia. Nel suo diario pubblicato postumo ma con pagine scritte all’epoca del Concilio, Congar attribuisce al giovane collega bavarese un’incidenza notevole nei lavori conciliari. E lo stesso Ratzinger considererà sempre l’esperienza al Concilio come uno dei grandi avvenimenti della sua vita, definendolo provvidenziale.  C’è un risvolto meno conosciuto della personalità di Benedetto XVI che gli riconobbe il ruolo, fin dagli anni Ottanta, di uno dei protagonisti della geopolitica della Santa Sede. “Ho sempre ammirato la lucidità e la sensibilità con cui l’allora prefetto della congregazione per la dottrina della fede riusciva a focalizzare perfettamente le questioni internazionali e che Giovanni Paolo II teneva in altissima considerazione, oltre che in merito agli interventi sulle specifiche questioni teologiche in cui è stato maestro insuperabile e voce di massima auctoritas, anche alle sue considerazioni personali su quanto accadeva nello scacchiere mondiale”, ha più volte rievocato il cardinale Achille Silvestrini, ministero degli esteri vaticano durante la prima parte del pontificato di Karol Wojtyla.  Da uomo di azione e di pensiero Benedetto XVI ha scritto fondamentali encicliche e ha pubblicato il Gesù di Nazareth in più volumi, per mostrare che la fede non è un elenco di proibizioni ma un rapporto di amicizia con il Dio fatto uomo.  Ha posto i temi della povertà e dell'Africa, dei giovani, dell'ecumenismo e dell'annuncio della fede al mondo secolarizzato al centro del proprio regno. Ha lottato energicamente contro gli abusi sessuali del clero, imponendo una inversione di rotta nella coscienza, nelle norme e negli atteggiamenti della Chiesa nei confronti dei preti pedofili. Ma per capire effettivamente come Joseph Ratzinger abbia strutturato nell’arco dei decenni la sua personalità ecclesiale e intellettuale è utile fare ciò che si fa di fronte ad un’opera maestosa: tenere la giusta distanza per osservarla nella sua compiutezza e poi scomporla osservandola minuziosamente pezzo per pezzo.

La lezione di Sant’Agostino

In una operazione così complessa è utile farsi guidare da chi per mentalità e formazione è abituato ad analizzare scientificamente fenomeni complessi come il professor Stefano Zamagni, presidente della Pontificia Accademia delle Scienze Sociali, ordinario di Economia politica all’Università di Bologna, già consultore del dicastero vaticano della Giustizia e della Pace, chiamato in Vaticano il 7 luglio 2009 a presentare la fondamentale enciclica di Benedetto XVI Caritas in veritate alla cui elaborazione ha collaborato. “Tanti e su fronti diversi sono stati i contributi fondamentali di papa Ratzinger al pensiero teologico. Ne scelgo alcuni”, afferma Zamagni. “Assai efficacemente Benedetto XVI ha parlato di emergenza educativa- evidenzia l’economista-. Nel suo discorso del 17 gennaio 2008 alla Sapienza di Roma, il Pontefice tedesco chiarì in modo originale la differenza tra educazione e formazione-istruzione”. Prendendo le mosse dalla celebre affermazione di Agostino secondo cui vi sarebbe una reciprocità tra scientia e tristitia  (“il puro sapere rende tristi”) Ratzinger precisò che Verità significa assai più che mero sapere. Infatti, la conoscenza della verità ha come scopo la conoscenza del bene. E questo, sottolinea Zamagni, è anche il senso dell’interrogativo socratico: “Qual è quel bene che ci rende veri?”. La convinzione che la verità renda buoni e la bontà sia vera è  “la lezione di Benedetto XVI e il senso dell’ottimismo cristiano perché alla fede cristiana è stata concessa la visione del Logos, della ragione creatrice che, nell’Incarnazione, si è rivelata insieme come il Bene stesso”. E al riguardo si chiede Zamagni: “Quando il sapere, anziché rendere tristi, dà gioia? Quando esso è conoscenza del bene”. Di qui, sostiene l’economista, “la differenza profonda tra educazione e formazione-istruzione: la prima promuove la conoscenza del bene, la seconda si ferma al saper fare”. E, aggiunge, “se la formazione mira a far diventare bravi l’educazione mira piuttosto a far diventare buoni”.  Un secondo contributo determinante che Zamagni attribuisce a Joseph Ratzinger riguarda l’educazione al dialogo. A partire dal quesito-base: “Come si fa a dialogare”. L’etica dialogica, secondo l’economista, “postula che si ammetta che l’azione  o il pensiero dell’altro possa superare la mia capacità di previsione o di congettura”. Infatti “se pretendo di essere in grado di prevedere l’altrui comportamento vuol dire che coltivo il desiderio di condizionarne la libertà”. E’ dunque  necessario per Joseph Ratzinger distinguere la relatività delle culture dal relativismo culturale. Quest’ultimo, precisa Zamagni, “nega l’esistenza di valori oggettivi in nome della pluralità delle culture e nega altresì la possibilità di trovare principi comuni”.

Valori oggettivi

Ciò che è relativo, dunque, è “tradurre in una certa cultura i valori che sono oggettivi”. Vale a dire, “proprio perché la verità è unica e trascendente essa è pluralmente interpretabile”. Insomma, un conto è il relativo rispetto all’assoluto, altro conto è l’affermazione che nulla è assoluto, sostiene l’economista: “Nel concreto, ciò conduce all’approccio del riconoscimento delle diversità, cioè all’approccio della interculturalità, ben diverso da quello dell’interculturismo”.  Il punto, secondo Benedetto, è come garantire a tutti il soddisfacimento dei diritti fondamentali e assicurare, secondo Zamagni, “uno spazio pubblico in cui i soggetti portatori di una identità culturale diversa da quella maggioritaria possono porre a confronto le loro posizioni e possono negoziare, con mutuo vantaggio, i loro interessi. In altro modo, riconoscere le differenze esistenti e giungere al consenso, fissando i limiti entro cui mantenerle”.  Alla luce del magistero di Joseph Ratzinger e dalla sua testimonianza di vita, il primo insegnamento individuato da Zamagni è quello di aver capito cosa significhi la celebre affermazione di Tommaso secondo cui “ad opera virtum perducimur per lumen rationis”: Alle opere delle virtù, e quindi alla moralità, “si è condotti mediante il lume della ragione, così come alle opere della Grazia  si viene condotti attraverso il lume della fede”. Inoltre Joseph Ratzinger, a giudizio dell’economista, “ha insegnato che il cristiano non può confondere il senso dei termini carità e solidarietà. Il positivismo, prima, e il marxismo, poi, hanno cercato, con un qualche successo, di sostituire il termine cristiano di carità con quello umanistico di solidarietà, una sostituzione che è penetrata, in parte, anche nella Chiesa stessa”.  E, avverte Zamagni, “quando ciò avviene, si riduce il cristianesimo alla sua dimensione terapeutica e la fede a un’etica”.

Il nodo della laicità

Ugualmente rilevante è la lezione di Benedetto XVI sulla vexata quaestio della laicità. “Il filosofo francese Remi Brague ha chiamato “cristianisti” quei “laici” che riconoscono l’apporto positivo del cristianesimo e gli sono perfino favorevoli, ma non credono in Cristo- afferma Zamagni-.E’ ovvio che essi non vadano scoraggiati, ma Joseph Ratzinger ha sempre insistito che compito del credente è quello di dialogare con i “cristianisti” per invitarli a riconoscere la sorgente della “civiltà cristiana” e a riconoscere che questa sorgente potrebbe abbeverare anch’essi”. E’ in ciò secondo l’economista il fascino profetico che Ratzinger ha saputo dare al messaggio cristiano e cioè “quella forte identità che non ha paura di confrontarsi con le altre culture e con le altre religioni”.  E “pur nella naturale dolcezza del carattere, Benedetto XVI è stato esemplarmente critico di quelle linee di pensiero che giudicava estremiste e nulla sarebbe  più erroneo che considerare la mitezza che egli irradiava come espressione di una inclinazione a essere accomodante”.  Joseph Ratzinger era paziente ma fermo nei propositi che non ammettono cedimenti.   “Se si ammette che la carità porta con sé una benedizione nascosta, ma non si consente che essa possa esprimersi anche nelle sfere economica e politica, si potrà pure realizzare una società avanzata e perfino giusta, ma non fraterna- sottolinea l’economista-. Efficienza e giustizia, anche se unite, non bastano a soddisfare il bisogno irrefrenabile di felicità: è questo il grande messaggio dell’enciclica Caritas in Veritate”.  Zamagni riconosce a Ratzinger anche il chiarimento definitivo della differenza tra le categorie di bene comune (uno dei quattro pilasti della Dottrina Sociale della Chiesa) e di bene totale.  Al numero 74 della Gaudium et Spes, la quarta costituzione apostolica conciliare promulgata da Paolo VI, il bene comune è definito come l'insieme di quelle condizioni della vita sociale che permettono sia alla collettività che ai singoli membri di raggiungere la propria perfezione più pienamente e celermente. “Il bene comune non è dunque un fine in sé, ma strumento per il bene del singolo e dei gruppi”, osserva l’economista.  Il Compendio della Dottrina Sociale della Chiesa, pubblicato nel 2004 da Giovanni Paolo II correggerà poi il tiro scrivendo: “Il bene comune non consiste nella semplice somma dei beni particolari di ciascun soggetto del corpo sociale. Essendo di tutti e di ciascuno è e rimane comune, perché indivisibile e perché soltanto insieme è possibile raggiungerlo, accrescerlo e custodirlo”. Nessuna forma espressiva della socialità (dalla famiglia al gruppo sociale intermedio, all'associazione, all'impresa di carattere economico, alla città, alla regione, allo Stato, fino alla comunità dei popoli e delle nazioni) può “eludere l'interrogativo circa il proprio bene comune, che è costitutivo del suo significato e autentica ragion d'essere della sua stessa sussistenza”. Una definizione, sostiene Zamagni, che “non solamente sottolinea la specificità della nozione di bene comune (la sua non separabilità), ma indica anche la via per la sua realizzazione”. In particolare, “nello Stato democratico coloro ai quali compete la responsabilità di governo sono tenuti a interpretare il bene comune del loro Paese non soltanto secondo gli orientamenti della maggioranza, ma nella prospettiva del bene effettivo di tutti i membri della comunità civile, compresi quelli in posizione di minoranza”.  Lo Stato, dunque, “interpreta e non determina, né sancisce cosa è il bene comune, perché lo Stato è espressione della società civile e non viceversa, così come vogliono le varie versioni dello Stato etico”. Il pontificato di Joseph Ratzinger, secondo Zamagni,  “ha chiarito, come meglio non si potrebbe, la relazione fra felicità e Speranza. La felicità sta nella “tensione verso”, non in ciò che già è ottenuto, proprio come la speranza, che si rivolge a ciò che ancora non è”.  La domanda “possiamo essere felici” si traduce, prosegue l’economista, in quella di “possiamo sperare” e l’interrogativo “come raggiungere la felicità” rinvia a quello “che cosa possiamo sperare”.  E “ovunque vi sia una decisione da prendere nasce un dubbio e il dubbio può pietrificare, come adombrato nel mito della testa di Medusa, che occorre tagliare perché non paralizzi”.

Il calcolo razionale

A giudizio del professor Zamagni, “il calcolo razionale, espressione del pensiero calcolante, è quanto serve alla bisogna”. Però è “altra cosa quando la decisione riguarda i fini e il perché uno se li proponga”. In questo caso, infatti, “un aumento della conoscenza non solo non è più un rimedio sicuro alla paralisi, ma può persino aggravarla”. Caso emblematico, secondo l’economista “la tragedia di Amleto il quale non sarebbe in imbarazzo sui mezzi, se non si ponesse, in realtà, il problema del fine”. Non c’è dubbio, analizza Zamagni, che “l’incertezza di Amleto (uccidere o meno lo zio)  si radichi nella tendenza a vedere ogni problema alla luce di problemi via via più generali, fino al più generale di tutti: a quello che si esprime nel celebre “essere o non essere” e su questo piano, l’intelligenza, lungi dal permettere di paragonare e decidere, risulta penalizzante”.  Anzi, “essa ci fa capire che non abbiamo una ragione ultima per decidere e che, se pretendiamo di darci una ragione anche delle ragioni, retrocediamo all’infinito”.  Di fronte alla rinuncia al pontificato di Benedetto XVI, il primo sentimento che Zamagni ha provato è stato di stupore e poi di smarrimento. “Nessuno potrà mai congetturare quali siano state le vere motivazioni di un gesto così radicale – racconta l’economista -. Si possono avanzare supposizioni, come molti hanno fatto. Ma a me esercizi del genere non interessano, né piacciono. Ciò che desidero esprimere è il sentimento di profonda gratitudine a questo papa, la cui cifra crescerà col tempo”. E “chiaramente, il diritto soggettivo esclude ogni gesto di gratitudine”, puntualizza Zamagni. “Non è forse vero che ciò che è dovuto, non è donato? Ma, come ha insegnato Benedetto XVI nell’enciclica Deus Caritas Est, l’uomo che esclude dal suo orizzonte la gratitudine finisce sempre, presto o tardi, di essere a disposizione dell’arbitrio del potere”, puntualizza l’economista.