Non si può morire di speranza

Nostrum”, nostro, era l'aggettivo che gli antichi Romani davano al mar Mediterraneo, quasi a ricordare che quando si tratta dell'acqua, elemento di per sé fluido, tutto sfugge, soprattutto l'idea del possesso. In consonanza con i libri dell'antichità, il mare nella Bibbia riveste di un significato duplice: nelle 397 volte in cui si cita l'ebraico jam, il mare si rivela insidioso e solo a tratti salvifico. Il passaggio del popolo d'Israele fra le acque del Mar Rosso, poi, rivela come, fuori da qualsiasi velleità contemplativa, questo era il mare per gli antichi: metafora del viaggio. Oggi tale accostamento si rivela nella sua drammatica attualità. Sono a centinaia i migranti nel mondo che abbandonano i loro luoghi natii per cercare speranza, e tanti di loro non ce la fanno a raggiungere il luogo sperato. Come la bambina di quattro anni annegata nel mar Mediterraneo. Di lei non rimane che un giubbotto salvavita donato al Papa, che egli custodisce tra i suoi effetti personali. La Sezione Migranti e Rifugiati del Dicastero per il Servizio dello Sviluppo Umano Integrale della Santa Sede si occupa di questo: salvare le vite di chi si mette in cammino spinto dalla speranza di una vita migliore. Dall'America Latina all'Asia, il fenomeno migratorio è in continuo fermento e punta il dito sul divario lacerante tra Nord e Sud del Mondo, tra Paesi ricchi e Paesi poveri. Papa Francesco, argentino figlio di Italiani, porta nel suo dna il desiderio profondo di chi emigra alla ricerca di speranza. Nella Giornata Mondiale del Migrante e del RifugiatoIn Terris ha voluto sondare in profondità il cuore della Chiesa sul tema, intervistando padre Fabio Baggio, nominato dal Pontefice sottosegretario della Sezione Migranti e Rifugiato e suo stretto collaboratore.

Padre Baggio, oggi lei svolge il ruolo di sottosegretario nella Sezione che si occupa di Migranti e Rifugiati all'interno del Dicastero per il Servizio dello Sviluppo Umano Integrale: ci racconta com'è nata la sua vocazione nella Congregazione dei Missionari Scalabriniani, da sempre dedicati ai migranti?
“Nel 1887, monsignor Giovanni Battista Scalabrini, vescovo di Piacenza, ha avuto l'idea di fondare una Congregazione di Missionari che potessero assistere gli Italiani che emigravano nelle Americhe. Negli anni, la Congregazione ha incluso tutti i migranti e i rifugiati e anche le atre persone in movimento, ossia tutti coloro che vivono e soffrono il dramma della migrazione. Nella mia città, Bassano del Grappa, c'era un grande seminario scalabriniano che raccoglieva i ragazzi che sentivano una particolare chiamata. Mio fratello è entrato in quel seminario nel 1975 e un anno dopo l'ho fatto anch'io: mi colpì la sua contentezza e la sua gioia mi contagiarono. Sono entrato in seminario quando avevo 11 anni. Ho fatto tutta la trafila del seminario minore fino al noviziato. La vocazione è maturata proprio in questi anni di seminario e con le possibilità di missione che ci hanno fatto fare i formatori all'estero proprio a contatto con gli emigrati stessi”.

È stato consigliere della Commissione Episcopale per le Migrazioni del Cile fino al 2002, direttore del Dipartimento per la Migrazione dell'Arcidiocesi di Buenos Aires e poi, nelle Filippine, direttore dello Scalabrini Migration Center. Come ha visto al fenomeno migratorio?
“La mia prima missione è stata a Roma nella cappellania latino-americana: qui sono venuto a contatto con tanti migranti latinoamericani che venivano a lavorare sin dai primi anni Novanta. Poi c'è stato il Cile, dove ho lavorato come consigliere presso la Commissione Episcopale per le Migrazioni e quale cappellano della prima comunità peruviana, esattamente a Santiago del Cile, a contatto soprattutto con i rifugiati. E poi a Buenos Aires, dovevi è stato affidato il coordinamento della pastorale di tutti i migranti dell'arcidiocesi: una popolazione enorme di varia etnia – tanti italiani e tanti spagnoli, ma anche paraguaiani, cileni, boliviani e peruviani – e questo mi ha dato il modo di conoscere il fenomeno da varie sfaccettature”.

Qual è il momento in cui ha cambiato totalmente la sua prospettiva?
“Senza dubbio in Asia, dove sono entrato in un mondo totalmente diverso dal mio. Le Filippine, pur essendo state una colonia spagnola, hanno fortemente preservato la cultura asiatica e questo mi ha dato modo di conoscere, in otto anni di lavoro, altri flussi migratori in Asia e nel Sud-Est Asiatico”.

Alla luce di questa esperienza “tetraedrica”, che idea si è fatto del fenomeno migratorio che – ricordiamolo – non è esclusivo del mar Mediterraneo?
“Oggigiorno, guardando al Mediterraneo, continuo a ripetere 'È uno dei flussi', non il più grande né il più drammatico rispetto agli altri. Non dimentichiamoci, per esempio, che dal Venezuela negli ultimi mesi sono fuoriusciti circa 5 milioni di persone: un flusso enorme riversatosi nei Paesi limitrofi del Sud America, chiedendo una solidarietà straordinaria. Non dimentichiamo il corridoio umano che dal Centro America va verso gli Stati Uniti, che coinvolge centinaia di migliaia di persone ogni anno, con drammi, morti e violenze. Sono un milione i Rohingya confinati in un solo campo rifugiati che non hanno alcuna prospettiva di futuro, senza soluzioni in vista. Si potrebbe continuare con Africa e Asia, continenti pervasi da  movimenti continui di persone, sia all’interno dei paesi, sia attraversando le frontiere. Qui parliamo di drammi umani a cui non riusciamo a dare risposta. Questo significa che il fenomeno migratorio nel mar Mediterraneo, pure importante, va inserito all'interno di un contesto globale che si pone come sfida alla sollecitudine pastorale del Santo Padre e alla Sezione Migranti e Rifugiati che in questo cerca di assisterLo”.

Il primo viaggio di Papa Francesco fuori dalla Diocesi di Roma è stato a Lampedusa (8 luglio 2013) e, dopo circa dieci giorni, in Brasile (22-29 luglio) dove ha visitato la favela di Varginha. Come leggere, a distanza di qualche anno, queste due visite del Pontefice?
“A distanza di anni, leggo queste due visite come espressione viva dell'interesse e della sollecitudine pastorale che il Papa dimostra verso tutti gli abitanti delle periferie esistenziali. Il Papa parla di periferie esistenziali quali realtà che all'interno della nostra società sono abitate da tutte le persone vittime della cultura dello scarto. Possono essere anziani, ammalati, bambini, vittime della tratta, rifugiati; possono essere anche persone che vivono nell'oscurità e non hanno trovato il senso della loro vita. Queste periferie esistenziali ci interpellano perché Dio vuole e deve farsi presente in queste realtà. Le nostre realtà ecclesiali, dalle varie comunità alle parrocchie, sono chiamate a dare ciascuna una risposta di vicinanza a queste persone che vivono nelle periferie”.

Eppure le periferie sembrano più popolate oggi…
“Oggigiorno, le periferie sembrano più popolate di prima semplicemente perché la cultura dello scarto sta dilagando: è quella cultura di un benessere sfrenato che non guarda in faccia all'altro, ma dice 'prima io, poi gli altri'. È la cultura dominante del mettiti al primo posto, del nessuno ti dà niente, una mentalità quasi cannibale nei confronti di un benessere che non vuole essere condiviso. In questo senso leggo le visite del Santo Padre cui faceva menzione. Ricordo, durante l'Anno Santo della Misericordia, le visite mirate alle carceri, ai bambini malati di cancro, alle persone affette da morbo di Alzheimer, alle vittime della tratta, cioè tutte persone che corrono il rischio di essere dimenticate, quindi scartate. In questo senso, l'accordo del Santo Padre è stato costante in tutti gli anni di Pontificato”.

Accogliere, Proteggere, Promuovere e Integrare sono i quattro verbi in cui, secondo Papa Francesco, dovrebbe declinarsi la pastorale migratoria della Chiesa universale e locale. Quale punto richiede più coraggio?
“Negli ultimi anni, il primo verbo è stato il più gettonato dall'attenzione mediatica. Il Santo Padre, però, ha ricordato in diverse occasioni che l'ultimo verbo è quello che va tenuto sempre presente nel momento in cui si svolgono i primi tre. Accogliere, proteggere e promuovere sono verbi importantissimi, ma hanno senso se come fine ultimo abbiamo l'integrare che – come dice Papa Francesco – non è un processo unidirezionale, ma bidirezionale, nel senso di una società e comunità cristiana che si costruiscono grazie anche ai nuovi arrivi, una comunità che dalla prospettiva di noi cattolici diventa nuova – e anche cattolica – grazie alla universalità che viene garantita dalla presenza di elementi eterogenei. È la sfida della cattolicità che si ripropone”.

Eppure la storia della Chiesa non rivela anche il rischio chiusure in seno alla cattolicità stessa?
“Nella storia della Chiesa, in diverse epoche si è manifestata la tentazione della esclusività, momenti in cui è parso più conveniente escludere invece che includere. Il Concilio di Gerusalemme (49) si è confrontato con questa domanda  e l'ha risolta nel senso dell'inclusione. La Chiesa cerca sempre l'inclusione e non può riposare, secondo il progetto divino, fino a quando non è capace di far giungere il messaggio di salvezza fino agli estremi angoli della Terra”.

Accogliere, Proteggere, Promuovere e Integrare hanno, dunque, una radice missionaria?
“Sono verbi che si possono applicare all'evangelizzazione. Nell'ultimo messaggio del Santo Padre per lanciare la Giornata Mondiale del Migrante e del Rifugiato, lui ricorda che questi verbi sono gli stessi messaggi della pastorale e valgono per qualsiasi persona delle periferie esistenziali”,

In che cosa consiste il lavoro della Sezione Migranti e Rifugiati?
“Noi abbiamo iniziato con una delle indicazioni chiare da parte di Papa Francesco, il quale guida personalmente la Sezione al momento presente. È stato lui a chiederci di fare tre cose: ascoltare, ascoltare, ascoltare, invitandoci a non fare nulla senza che prima ci mettessimo in ascolto delle realtà locali. Abbiamo dedicato tutto il primo anno all'ascolto delle Chiese locali, cercando di raccogliere dati. In un secondo momento, siamo tornati alla Chiese locali con delle riflessioni e proponendo anche delle azioni corrispondenti alle risorse e alle conoscenze di ciascuna. Ci siamo offerti ad assisterle nella progettazione e nell’azione pastorale, promuovendo il dialogo con gli altri partner del territorio: le organizzazioni cattoliche internazionali, le istituzioni e gli altri attori della società civile. L'idea alla base è che possiamo produrre dei reali cambiamenti solo se riusciamo a coinvolgere tutti gli attori”.

Quale momento degli incontri con il Santo Padre l'ha particolarmente colpita?
“Ricordo momenti condivisi con il Santo Padre estremamente importanti. Ricordo, per esempio, le lacrime agli occhi del Papa quando, di ritorno da qualche viaggio, ci raccontava delle situazioni particolari di sofferenza, di ferite profonde che aveva avuto modo di toccare con mano. Ho visto negli occhi del Papa quella compassione e quella tenerezza cui spesso fa riferimento nelle sue esortazioni. Sono momenti toccanti, perché sembra quasi di rivivere assieme a lui quelle situazioni che sono rimaste impresse nel suo cuore. Qualche volta ci chiede di tornare e vedere se ci sono stati cambiamenti”.

È vero che il Papa ha donato alla Sezione Migranti e Rifugiati un giubbotto salvavita?
“È stato il primo regalo che abbiamo ricevuto dal Papa. Si trattava di un giubbotto salvavita che lo stesso Santo Padre aveva ricevuto, durante un'udienza generale, da uno dei soccorritori. Il giubbotto apparteneva a una bambina di quattro anni che purtroppo non ce l'aveva fatta. Il Santo Padre ce lo diede dicendo: 'Cercate di salvare le vite umane, perché non muoia più nessuno'. Il nostro primo impegno è che di migrazione non muoia nessuno. Purtroppo, non siamo stati capaci di realizzarlo fino ad oggi”.

Oggi il Santo Padre celebrerà l'Eucaristia in San Pietro nella Giornata Mondiale del Migrante e del Rifugiato, che quest'anno ha come titolo “Non si tratta solo di migranti”. Qual è il senso di questo titolo?
“Il Santo Padre ha voluto sottolineare che, quando parla di migranti e rifugiati, non si riferisce solo a loro. In questo momento, i migranti sono tra gli abitanti più visibili delle periferie esistenziali. Sono anche tra i più vulnerabili: la Bibbia ci insegna che gli stranieri sono spesso emarginati, perché non fanno parte del “nostro” gruppo. I migranti e rifugiati si trovano spesso ai margini dei margini, assieme a tanti altri vulnerabili e feriti che non vanno dimenticati. L'emergenza migranti non riguarda solo loro, ma anche noi, c'interpella su quello che noi vogliamo essere, sulla nostra nostra umanità. Si tratta di non escludere nessuno, di mettere gli ultimi al primo posto. In definitiva, si tratta di impegnarci per costruire l'unico Regno di Dio, non due o tre diversi”.

Quando si parla di rifugiati, vengono in mente i campi profughi dei Rohingya in Bangladesh o i campi di detenzione in Libia. Secondo lei, è necessario studiare il fenomeno?
“La Sezione dedica particolare cura ad alcune categorie 'vulnerabili' cui siamo chiamati a rispondere con azioni pastorali dedicate: ne fanno parte i migranti internazionali, quelli forzati sfollati interni, i rifugiati e richiedenti asilo, così come le vittime della tratta. Ci troviamo spesso di fronte a sfide estremamente complesse che hanno bisogno di studio e analisi. Per la nostra Sezione è importante raccogliere le informazioni da coloro che lavorano ogni giorno con migranti e rifugiati e parimenti avvalerci delle competenze delle università cattoliche e dei centri di studio per comprendere i dati raccolti”.

Don Aldo Buonaiuto ha lanciato la petizione per istituire la Giornata del Migrante Ignoto per dare dignità ai volti senza nome che giacciono in fondo al mare. Secondo lei, è importante fare memoria?“Non solo è importante, è un dovere. Ricordo che, andando a Lampedusa, ho parlato delle persone che si dedicano a mettere i nomi sulle croci. Lo dobbiamo alle persone stesse, alle famiglie e nei confronti di noi stessi. Ogni volte che troviamo delle persone che muoiono a causa dell'ingiustizia e delle nostre noncuranze, dobbiamo dare un nome, fare memoria. Dall'anno scorso celebriamo ogni anno l'anniversario della visita del Papa a Lampedusa con una celebrazione in cui ricordiamo soccorsi e soccorritori. Assieme a questa celebrazione, ce n'è un'altra, organizzata dalla Comunità Sant'Egidio assieme ad altre realtà ecclesiali: una veglia di preghiera per coloro che sono morti nel Mediterraneo e nel resto del mondo. Sono i cosiddetti morti di speranza, coloro che non sono riusciti a realizzare il loro sogno. A tutti questi, noi diciamo 'non si può morire di speranza'. I modi per ricordare e fare memoria sono tanti, don Aldo Buonaiuto ne ha proposto uno, e dobbiamo cercare di unire tutte le nostre proposte per ricordare le persone morte in mare, nel deserto e in tutte le rotte migratorie”.

Seguendo le orme di don Oreste Benzi, don Aldo è impegnato, insieme a tutta la Comunità Papa Giovanni XXIII, nella lotta alla tratta delle donne. Che peso ha questo male endemico nell'attività del Servizio Migranti e Rifugiati?“Nel primo anno dedicato all'ascolto, abbiamo prestato molta attenzione alle organizzazioni cattoliche che lavorano per proteggere i soggetti migranti più vulnerabili. Abbiamo ascoltato anche la Comunità Papa Giovanni XXIII, la quale ci ha aiutato, assieme a tanti altri, a tracciare quegli Orientamenti generali sulla tratta che abbiamo pubblicato nel gennaio scorso. Come dice bene don Aldo ne suo libro Donne Crocifisse, dobbiamo destare l'attenzione su questo fenomeno in continua ascesa che riguarda la prostituzione coatta ed ha ramificazioni anche in altre forme. Il fenomeno della tratta va sì considerato nei paesi d'origine, ma va presa sul serio anche la “domanda”, ossia i consumatori finali dei servizi che grazie alla tratta vengono offerti. Ricordo che una volta il Santo Padre ci disse: 'Se ci sono vittime della tratta, è perché qualcuno richiede i loro servizi'. Dobbiamo, dunque, rendere cosciente la società di questo fenomeno, anche dal lato della domanda. Dobbiamo, cioè, renderci conto di quanto una domanda possa sollevare un'offerta dall'altra parte che gioca con le vite delle persone. Se in qualche modo si diventa i 'consumatori finali' di tali servizi, non ci si può non ritenersi responsabili. La Comunità Papa Giovanni XXIII, può essere considerata tra i pionieri in Italia e nel mondo in quest’impegno. Bisogna imparare  da coloro che hanno segnato i passi e il documento sugli Orientamenti generali sulla tratta si nutre dell'esperienza dei tanti attori ecclesiali che si sono interessati del fenomeno ed hanno saputo rispondere alle sue sfide”.