Migranti e pregiudizi: la straordinaria storia di Alì

Addentrarsi nel tema delle migrazioni oggi in Italia è come entrare in un campo minato. Il Paese (come peraltro il resto dell’Europa e del mondo intero) è chiaramente diviso in due, tra chi è disponibile all’accoglienza e chi invece vorrebbe chiudere le porte. L’odierna giornata mondiale del migrante e del rifugiato, giunta all’edizione numero 104, può rappresentare l’occasione per riflettere su questo argomento con un minimo di obiettività. Per fornire il suo contributo, In Terris ha deciso di intervistare Alì Eshani e raccontare la sua storia.

Alì è un ragazzo di origine afghana, di etnia turcomanna. Nato in una famiglia cristiana che però non lo ha battezzato “perché a Kabul non c’erano chiese, non c’erano preti e i miei avevano paura che potessero scoprirci. Mio padre – spiega – non mi parlava di Gesù più di tanto perché temeva che potessi raccontare qualcosa in giro”. E in effetti, una volta suo padre fu preso dai talebani e sparì per qualche giorno: “Quando tornò vidi i segni delle torture sulla sua schiena” ricorda Alì.

La sua vicenda umana è raccontata nel libro “Questa notte guardiamo le stelle” (ed. Feltrinelli), da cui presto potrebbe nascere un film. Un percorso drammatico, che comincia il giorno in cui a 8 anni, tornando da scuola, trova la sua casa rasa al suolo, colpita da un razzo. I genitori morti nel bombardamento. A quel punto, il fratello più grande, Mohammed, 17 anni, deve fargli da padre, da guida, da protettore. Sono costretti a lasciarsi alle spalle l'Afghanistan dei talebani. Fuggono verso il Pakistan. Un’odissea, narrata nel libro, durante la quale assistono a ogni genere di orrore. Arriveranno in Iran, poi in Turchia. Qui il fratello tenta di raggiungere la Grecia ma annega al largo di Lesbo. Alì è solo e cerca a sua volta di ripercorrere le orme del fratello ma rischia di fare la stessa fine. Mentre è in acqua (non sa nuotare) appeso a una tanica di benzina vuota che chissà come gli è finita tra le mani, sul punto di perdere le forze e di essere inghiottito dal mare, Alì si ritrova disperato a urlare contro il Cielo: “Gesù, se esisti, dimostramelo”. “Mi sono addormentato per pochi minuti – racconta – e ho sognato il volto insanguinato di Gesù che mi diceva ‘Ti proteggo io’. Teneva sopra di me un ombrello giallo contro cui finivano tante frecce tirate da altre persone. Mi sono svegliato e i miei piedi toccavano la riva”. Il viaggio prosegue attraverso la Grecia fino all’Italia: dopo un primo tentativo andato a vuoto, riesce a raggiungere Venezia a bordo di un traghetto nascosto sotto un camion. Sono passati cinque anni e Alì ne ha 13. E’ la primavera del 2003. Finisce in un centro d’accoglienza a Roma e lì la sua vita ha una svolta. Ricomincia a studiare, finisce le medie e si iscrive alle superiori, ad un istituto professionale.

Leggere o ascoltare la sua storia eccezionale può aiutare a comprendere cosa significa essere un migrante, un rifugiato, un profugo. Guardare negli occhi una persona concreta e cercare di comprenderla, senza pregiudizi.

“Ho iniziato a frequentare persone che andavano in chiesa, partecipavo a un coro. Quando non ero con loro mi sentivo triste. Un giorno una professoressa mi ha invitato a una gita, siamo stati a Orvieto. A casa sentivo la mancanza dei miei compagni, erano diversi dalle amicizie che frequentavo al centro di accoglienza. Mi sono chiesto perché… non vedevo l’ora di stare di nuovo con loro. L’ho capito quando stavo a pregare in chiesa, dove mi sentivo sicuro. Lì ho capito che quella era la realtà che mi mancava: il Signore che mi protegge. Poi ho compreso che in quelle amicizie c’era la presenza di Gesù, per quello erano così profonde e potevano condividere anche le cose materiali con me, fosse pure un panino. Questo mi ha riempito di gioia”. Un percorso culminato nel 2009, quando Alì viene battezzato nella basilica di S. Giovanni in Laterano: “Quando andavo a messa facevo la comunione fino a quando la mia professoressa mi ha chiesto se ero battezzato. Ho risposto che non lo sapevo, probabilmente no, ma ero cristiano… così ho iniziato il percorso di formazione durato due anni fino al battesimo”.

Una crescita spirituale che è andata di pari passo con quella culturale: Alì, ormai diventato Alan, si è prima diplomato in ragioneria, poi si è laureato in giurisprudenza. Grazie alla media dei voti, ha ottenuto un posto nella Casa dello studente di via De Lollis, vicino all'Università La Sapienza. Ora sta preparando la tesi per la specialistica, su un tema che ben conosce: i migranti minori non accompagnati.

Tanti ragazzi fuggiti da situazioni di guerra e di povertà una volta giunti in Italia hanno intrapreso brutte strade. Cosa ti ha impedito di finire come loro?

“Fino a 13 anni ero clandestino, avevo paura pure delle sirene delle ambulanze perché temevo che fosse la polizia. Quando sono arrivato in Italia ero abituato a convivere con la paura, con l’angoscia. Pian piano ho capito che ero più protetto, che non mi sarebbe successo nulla. Al centro di accoglienza ho incontrato ragazzi minorenni che avevano commesso reati, soprattutto spaccio di droga. Mi dicevano sempre ‘dai, fratello, andiamo a vendere droga, si guadagna bene’. E ovviamente anche loro ‘fumavano’. Ma dentro di me ho detto: per tutta la vita ho vissuto nella paura, da clandestino, perché devo continuare così? Voglio vivere una vita dignitosa, con tranquillità. E’ stato questo a farmi restare sulla strada giusta”.

Cosa pensi del clima che si respira in Italia nei confronti dei migranti e dei rifugiati?

“Non voglio criticare, né entrare in discorsi politici. Però mi chiedo spesso: come mai 15, 16 anni fa, quando sono arrivato in Europa, morivano centinaia e migliaia di migranti in mare e la comunità internazionale non è ancora riuscita a risolvere questo problema? Si fanno accordi con Turchia o Libia per trattenere i migranti lì ma la soluzione non è quella”.

E qual è secondo te?

“Occorre che la comunità internazionale, con decisione, si assuma la responsabilità di non esportare armi ma libri e quaderni, di costruire scuole e fabbriche nei paesi più poveri, così si può riuscire a sconfiggere l’immigrazione. Intanto però non può essere solo l’Italia a farsi carico di questo problema, deve essere coinvolta tutta l’Unione europea. Non si tratta solo di accogliere il migrante, dargli da mangiare e da dormire. Così non si riuscirà mai a integrarlo nella cultura del Paese e questa è una seconda fase. Non si possono dare 30 euro al giorno a vuoto. Quei fondi che servono ad aiutare vanno utilizzati meglio: caro immigrato, ti do i soldi ma tu devi prendere una casa in affitto, spesarti da solo, pagare i biglietti dell’autobus e devi impegnarti a formarti, a imparare la lingua, ad andare a scuola. E se non ci vai, ti scalo i soldi come se non fossi andato a lavorare. Così si riuscirebbe a educare e integrare nella cultura. Bisogna ricucire il tessuto sociale”.

Oltre a scrivere un libro, hai portato la tua esperienza al Parlamento europeo: cosa sei andato a dire?

“La discussione era sempre sull’immigrazione, sulla ripartizione degli immigrati tra gli Stati e sulla necessità di costruire ponti anziché muri. Anche lì ho fatto lo stesso discorso, oltre ad affrontare alcuni aspetti di ordine giuridico. Ad esempio c’è il problema delle direttive, che non sono obbligatorie per gli Stati membri, contrariamente ai regolamenti, e così tutto è lasciato all’interpretazione dei singoli Stati. L’Europa deve investire sulla cultura e sul futuro dei giovani. Oggi l’immigrazione è causata in molti casi dalla guerra. Tra qualche decennio ci sarà un fenomeno analogo causato dai cambiamenti climatici, in parte già iniziato. Come lo affronteremo? Bisogna cominciare a pensarci da ora”.

Che ne pensi dello ius soli?

“Vivo qui da quasi 16 anni ma non ho la cittadinanza italiana (Alan è apolide, ndr). A tutti gli effetti mi sento italiano, mi sono integrato nella cultura italiana quindi mi chiedo perché non posso ancora avere la cittadinanza. Altri Paesi europei, come Germania e Svezia, la concedono dopo 7 anni se non hai commesso reati e hai fatto gli studi opportuni. Non lo dico per la mia situazione personale, ma a determinate condizioni penso che vada approvato. Però mi rendo conto che è un argomento spinoso e non voglio sollevare polemiche”.

Pensi mai alla tua terra?

“Ogni tanto ma non credo di poter tornare a vivere lì. Penso anche alla mia sicurezza, lì non mi tutelerebbe nessuno, sono cristiano e non potrei andare in chiesa, non c’è libertà religiosa né di opinione… Sinceramente è difficile pensare di tornare in Afghanistan”.

Qual è il tuo sogno?

“Educare i ragazzi, aiutare le persone bisognose, quelli che hanno vissuto esperienze simili alla mia. Ho cominciato a farlo nel Centro Elis, al Tiburtino, dove c’è una scuola ispirata a quella di Barbiana. E ogni giorno prego per quelli che la frequentano e per quelli che ci lavorano”.