Mezzo secolo in dialogo con Dio. 1969: Ratzinger in cattedra

Benedetto

Partecipando come perito (cioè consulente teologico) al Concilio Vaticano II, il futuro Benedetto XVI aveva acquistato notorietà a livello internazionale a partire dal 1962. Ma fu nel 1969, cinquant’anni fa, che Joseph Ratzinger divenne professore ordinario di Dogmatica e storia dei dogmi all'Università di Ratisbona, dove fu nominato anche  vicepresidente del prestigioso ateneo tedesco. A Roma, dal 1962 al 1965, il futuro Pontefice iniziò a incidere davvero sulle sorti della Chiesa universale. “Un giovane dalla faccia comune, tarchiato per quanto non basso di statura e dalla vocina di donna”, così l'Arcivescovo di Genova, il cardinale Giuseppe Siri, definì il teologo incontrato il 21 ottobre 1962. Si trattava di Joseph Ratzinger, consulente del cardinale Joseph Frings, Arcivescovo di Colonia, che a una riunione di cardinali presentò una sua proposta di schema conciliare sul tema delle fonti della Rivelazione. Un testo che per Siri poteva essere “al massimo buono per scriverci una lettera pastorale, stile lettera a Diogneto, e non degno di essere equiparato a un testo conciliare”.

La lezione del Concilio

Allo scrittore tedesco Peter Seewald, nel libro “Ultime conversazioni”, Joseph Ratzinger affidò alcuni ricordi dell’epoca, a partire dal giorno della sua partenza per la città eterna: “Prima andammo a visitare le tombe dei vescovi nel duomo di Colonia, il cardinale Frings, il segretario Hubert Luthe e io. Il cardinale sostò a lungo di fronte al punto in cui sarebbe stato sepolto. Poi ci dirigemmo all’aeroporto”. A Roma, la prima difficoltà logistica. Dovevano essere alloggiati tutti e tre nello storico collegio tedesco-austriaco per sacerdoti, l’Anima. In realtà il cardinale e Luthe trovarono effettivamente posto al collegio di Santa Maria dell’Anima, come tutti i vescovi austriaci; per il giovane perito conciliare, invece, non c’era possibilità di alloggio, perciò il rettore gli procurò una camera all’Hotel Zanardelli, che era proprio dietro l’angolo. Ma dalla colazione, a cominciare dalla messa mattutina, Joseph Ratzinger era all’Anima insieme con i suoi compagni di viaggio. Fino a quel momento il nostro teologo bavarese non sapeva cosa fosse la pennichella, ma poi è diventata un’abitudine alla quale non riusciva più a rinunciare durante il suo soggiorno italiano. Nel secondo periodo conciliare Ratzinger abitò nel Palazzo Pamphilj, che è adiacente a Sant’Agnese in piazza Navona. Durante il terzo e quarto periodo alloggiò di nuovo all’Anima.

La scoperta di Roma

Per lui era tutto nuovo. “La mattina presto passavano i bambini che andavano a scuola con il grembiule: non avevano cartelle, ma portavano i libri in mano legati da un elastico. Lo trovavo molto divertente. Tutt’intorno pullulava di vita, c’erano i commercianti e le botteghe dei barbieri erano affollate di clienti con la faccia coperta di schiuma: allora si usava ancora farsi radere. Ogni giorno facevo la mia passeggiata, così imparai a conoscere il quartiere. A volte veniva anche il cardinale, che era cieco e bisognava accompagnarlo”. Una volta, al futuro Pontefice, capitò di perdere l’orientamento e di non sapere più da che parte andare. Fu una situazione imbarazzante: “Mi descriva la piazza in cui ci troviamo”, chiese il grande porporato Frings al suo fidatissimo Joseph Ratzinger, che gli parlò, allora, della statua che ospitava. Rappresentava un politico italiano. “Ah, è Minghetti, allora dobbiamo proseguire per di lì e poi per di là”, spiegò Il cardinale al giovane teologo, indicandogli la strada. “Trovavo divertente e interessante la vita romana: l’allegria, il fatto che la maggior parte della giornata si svolgesse per strada, e tutto quel rumore” racconterà mezzo secolo dopo, il Papa emerito. “All’Anima era bello conoscere molta gente, i vescovi austriaci, i giovani cappellani del Collegio. Frings radunava cardinali provenienti da tutte le parti del mondo. Il vescovo Volk, un uomo di elevato rigore intellettuale e spiccate doti organizzative, convocava riunioni di gruppi internazionali di vescovi nel suo appartamento nella Villa Mater Dei, a cui partecipavo sempre anch’io. Lì conobbi anche de Lubac”. Anche se l’inizio delle sue nuove conoscenze fu da lui descritto come “piuttosto tiepido”. “Naturalmente i grandi luoghi del cristianesimo primitivo mi entusiasmarono: le catacombe, Santa Priscilla, la Chiesa di San Paolo dentro le Mura, San Clemente”, raccontò Benedetto XVI nell’intervista a Peter Seewald. “Anche la necropoli sotto San Pietro, ovvio. Non però nel senso che mi sentivo in sospeso sulle nuvole, ma perché l’origine era lì, si toccava con mano la grandezza della continuità”. Quando si trovò per la prima volta in piazza San Pietro con il fratello Georg, Joseph Ratzinger ricorda che non esultò per il fatto di trovarsi finalmente nel centro della cristianità. “Noi Ratzinger non siamo così emotivi”, ricorderà il Papa emerito. “Non che non fosse impressionante, beninteso. Questo fascino, tuttavia, si espresse più a livello intellettuale, interiore, senza, per così dire, farci prorompere in grida di giubilo”. Anche Georg ricordò  nitidamente i dettagli di quella esperienza nel suo libro “Mio fratello, il Papa”, rammentando, tra l’altro, che per arrivare nella città eterna viaggiarono sul Rapidissimo, un treno ritenuto molto veloce, mentre in realtà non lo era affatto, visto che si fermava a ogni stazione. “Visitammo le chiese più famose, la basilica di San Pietro e Santa Maria Maggiore, in composta ammirazione e silenzio”, ricorda Georg Ratzinger.

Il segno nel catechismo

Per Joseph Ratzinger, il Concilio Vaticano II è stato un vero e proprio segno del destino, della Provvidenza. Da consulente teologico del cardinale Frings, ha vissuto le quattro sessioni di quella grande avventura immerso nel ritmo mozzafiato di iniziative, sessioni di lavoro, brainstorming ed elaborazioni di documenti a stretto contatto coi più grandi vescovi e teologi del XX Secolo, da Congar a Rahner, a Volk, da De Lubac a Danièlou. Da cardinale Prefetto dell'ex Sant'Uffizio, Ratzinger legherà il suo nome al catechismo della Chiesa cattolica, pubblicato nel 1992, per riproporre in maniera sistematica il depositum fidei alla luce del Vaticano II. Da Papa tentò in ogni modo di risanare lo scisma coi tradizionalisti lefevriani, esponendosi all’accusa di aver aperto alla Chiesa l’Anticoncilio. La centralità del Vaticano II nel cammino percorso da Joseph Ratzinger è diventata talvolta un dato enigmatico, tutto da decifrare. In molti, per anni, si sono applicati a misurare la “coerenza” del percorso ratzingeriano, magari per incolparlo di “imbarazzanti cambi di casacca”, rivelatori di tardivi pentitismi, oppure, su fronti opposti, con l’intento di insinuare una perdurante pulsione modernista rimasta attiva sotto le movenze crucciate talvolta assunte quando era custode della ortodossia cattolica. Nessun dubbio sull’intensità con cui il Papa emerito ha vissuto il Concilio e tutte le sue conseguenze. Nel pensiero teologico di Joseph Ratzinger, il Concilio si sedimentò sotto forma di una moltitudine di intuizioni e scoperte cariche di suggestioni per il futuro della Chiesa. Come sottolineato su Vatican Insider dal vaticanista Gianni Valente, “l’attualità ecclesiale degli scritti conciliari di Joseph Ratzinger non si esaurisce nelle assonanze di fondo tra le intuizioni e gli entusiasmi del giovane professore di teologia di allora e il sensus ecclesiae di Papa Francesco”. Al suo arrivo a Roma, il 35enne Ratzinger comprese subito i reali contorni della partita conciliare. E le dinamiche da lui delineate allora sembravano molto simili a quelle che, durante il suo pontificato, mossero e agitarono gli scenari ecclesiali.

L'impronta su un'epoca

Ma per capire effettivamente come Joseph Ratzinger abbia strutturato nell’arco dei decenni la sua personalità ecclesiale e intellettuale è utile fare ciò che si fa di fronte ad un’opera maestosa: tenere la giusta distanza per osservarla nella sua compiutezza e poi scomporla osservandola minuziosamente pezzo per pezzo. In una operazione così complessa è utile farsi guidare da chi per mentalità e formazione è abituato ad analizzare scientificamente fenomeni complessi come il professor Stefano Zamagni, ordinario di Economia politica all’Università di Bologna, consultore del dicastero vaticano della Giustizia e della Pace, chiamato in Vaticano il 7 luglio 2009 a presentare la fondamentale enciclica di Benedetto XVI Caritas in veritate alla cui elaborazione ha collaborato. Oggi presiede la Pontificia Accademia delle scienze. “Tanti e su fronti diversi sono stati i contributi fondamentali di papa Ratzinger al pensiero teologico. Ne scelgo alcuni”, afferma Zamagni. “Assai efficacemente Benedetto XVI ha parlato di emergenza educativa – evidenzia l’economista -. Nel suo discorso del 17 gennaio 2008 alla Sapienza di Roma, il Pontefice tedesco chiarì in modo originale la differenza tra educazione e formazione-istruzione”. Prendendo le mosse dalla celebre affermazione di Agostino secondo cui vi sarebbe una reciprocità tra scientia e tristitia  (“il puro sapere rende tristi”) Ratzinger precisò che Verità significa assai più che mero sapere. Infatti, la conoscenza della verità ha come scopo la conoscenza del bene. E questo, sottolinea Zamagni, è anche il senso dell’interrogativo socratico: “Qual è quel bene che ci rende veri?”. La convinzione che laverità renda buoni e la  bontà sia vera è  “la lezione di Benedetto XVI e il senso dell’ottimismo cristiano perché alla fede cristiana è stata concessa la visione del Logos, della ragione creatrice che, nell’Incarnazione, si è rivelata insieme come il Bene stesso”. E al riguardo si chiede Zamagni: “Quando il sapere, anziché rendere tristi, dà gioia? Quando esso è conoscenza del bene”. Di qui, sostiene l’economista, “la differenza profonda tra educazione e formazione-istruzione: la prima promuove la conoscenza del bene, la seconda si ferma al saper fare”. E, aggiunge, “se la formazione mira a far diventare bravi l’educazione mira piuttosto a far diventare buoni”.  Un secondo contributo determinante che Zamagni attribuisce a Joseph Ratzinger riguarda l’educazione al dialogo. A partire dal quesito-base: “Come si fa a dialogare”. L'etica dialogica, secondo l’economista, “postula che si ammetta che l’azione  o il pensiero dell’altro possa superare la mia capacità di previsione o di congettura”. Infatti “se pretendo di essere in grado di prevedere l’altrui comportamento vuol dire che coltivo il desiderio di condizionarne la libertà”. E’ dunque  necessario per Joseph Ratzinger distinguere la relatività delle culture dal relativismo culturale. Quest’ultimo, precisa Zamagni, “nega l’esistenza di valori oggettivi in nome della pluralità delle culture e nega altresì la possibilità di trovare principi comuni”.

Joseph Ratzinger professore – Video © YouTube