In Giappone la Chiesa deve tutto al sangue dei martiri

Non era ancora sacerdote Jorge Mario Bergoglio quando chiese ai suoi superiori gesuiti di poter andare in Giappone. Lo ha ricordato lui stesso nell'incontro del 23 novembre con i vescovi giapponesi: “Io desideravo venire come missionario quando studiavo filosofia. Mi attraeva molto… non so perché il Giappone mi attraeva. Era un luogo di missione, che forse per la bellezza, desideravo. Successivamente, durante i tre anni di magistero ho fatto una richiesta formale al Generale che era da poco stato eletto, il padre Arrupe. Ma siccome mi avevano asportato una parte del polmone, lui rispose: no, la tua salute non te lo permette. E aggiunse che dovevo canalizzare lo zelo apostolico in un'altra direzione. Un po' mi fece pensare che sarei vissuto ancora pochi anni. Ma mi sono preso la mia rivincita e quando sono stato Provinciale, mi sono 'vendicato' mandando cinque giovani in Giappone. È andata così”. Per Francesco, dunque, il Giappone rappresenta la terra della missione per eccellenza e l'accento biografico che lui stesso ha voluto dare a questa tappa del viaggio non può prescindere dalla storia, costruita sui testimoni e i martiri, della Compagnia di Gesù: “Oggi il Signore mi offre l'opportunità di essere tra voi come pellegrino missionario sulle orme di grandi testimoni della fede. Si compiono 470 anni dall’arrivo di San Francesco Saverio in Giappone, che segnò l'inizio della diffusione del Cristianesimo in questa terra” ha ricordato il Pontefice, richiamandosi al co-fondatore dell'Ordine di cui ha abbracciato il carisma. Tutto torna oggi per il Papa qui in Giappone.

Il periodo buio della Chiesa nipponica

Per capire la storia della Chiesa in questa terra, non si può prescindere dalla parentesi sanguinosa che l'ha caratterizzata sino all'Ottocento per oltre due secoli. Oggi i Cristiani in Giappone rasentano l'1%, ma nel corso del Seicento la religione era proibita e i credenti perseguitati duramente. Un finestra su questa “parentesi buia” dell'evangelizzazione nella Terra del Sol Levante è stata data, due anni fa, da Silence, il film di Martin Scorsese ispirato all’omonimo libro di Shusaku Endo, che ebbe una gestazione di 27 anni.

“La passione di Scorsese”

Paul Elie, giornalista del New York Times, ha definito il progetto del regista “la passione di Scorsese”. La trama si snoda sullo sfondo delle persecuzioni cristiane nel Giappone del Seicento. Due giovani gesuiti, Rodrigues e Garrpe, approdano in Estremo Oriente per indagare sulla sospetta abiura di un loro maestro, strenuo evangelizzatore: padre Ferreira. La persecuzione in Giappone li porterà alla cruda realtà, più dura della ricerca della verità. È il mistero della fede celeste contro quello, più umano, della morte. Nella trama di Silence, protagonista è l'iperbole missionaria: davanti al mistero della libertà di fede, come agirà chi ha investito la sua vita a servire Dio? Sotto questa luce, la trama diventa un'incredibile cassa di risonanza del mistero umano: i personaggi del romanzo diventano declinazioni dell'uomo stesso che sdogana il dogma più inflazionato del nostro tempo, quello del superuomo.

La caduta del superuomo

L'attuale società neoliberista non fa mistero della grande fiducia nell’uomo. Le sue radici affondano nelle tesi progressiste di Rousseau, per il quale una sconfinata fiducia nelle capacità dell'uomo era la prerogativa necessaria per vivere in pace sulla terra. Anche Rodrigues e Garrpe si sentono, a loro modo, dei superuomini; sono certamente animati da buone intenzioni quando chiedono a padre Valignano di essere spediti in Giappone per informarsi su Ferreira. Ma dietro la loro intenzione, c’è un lato oscuro. La loro abnegazione vela la presunzione di sé: persuadersi che la realtà non è quella presentata dalle lettere dei mercanti, ritenersi eletti a questa missione di apostolato. Scriverà Rodrigues a ridosso della partenza: “non abbiamo altro bagaglio da portare in Giappone che i nostri cuori”. Ben presto egli stesso comprenderà l’ambivalenza di una simile affermazione, cioè il suo attaccamento materiale al sentimento, che pur continuerà a negare in un tentativo di emulazione del martirio.

Imitazione di Cristo

Padre Rodrigues è l’occhio della vicenda. Interpretato da Andrew Garfield, al giovane gesuita pieno di zelo basta sperimentare l'accenno della persecuzione perché il suo castello di certezze venga meno. Qui il piano si ribalta: i contadini giapponesi, eroici nel martirio e nella professione nascosta della fede, appaiono più sicuri degli stessi preti. Parlando ai vescovi, Papa Francesco ha parlato di queste piccole comunità strette nella morsa della persecuzione come di “autentiche Chiese domestiche che risplendevano in questa terra […] come specchi della Famiglia di Nazaret“. A Rodrigues basteranno un paio di mesi di nascondimento in una capanna perché emergano tutte le sue inquietudini. Nel film centrale è il ruolo svolto dall'immagine. Nella tradizione cristiana di derivazione occidentale, la figurazione (artistica o religiosa) è il terreno percettivo della fede: nel Mistero, l'immagine circoscrive e specifica. In Giappone, ai confini dell’Oriente, non v’è questo ripiego figurativo. Pedro Arrupe, Padre Generale della Compagnia di Gesù nella metà del Novecento, notò nei Giapponesi quella ricerca dell'”essenza dell’essere al di sopra di ogni atteggiamento competitivo”. Lo scontro tra i due gesuiti e il Giappone è, dunque, anche culturale. La critica di padre Rodrigues all'attaccamento agli idoli dei “cristiani nascosti”, sia essi pure il grano di un Rosario, confuterà le sue azioni poco dopo, quando anch'egli si scoprirà legato, più di quanto pensasse, all’immagine di Cristo: “E tuttavia stanotte per me quel viso è come il dipinto conservato in Borgo San Sepolcro. È ancora viva nella mia memoria la prima volta che da seminarista vidi quel dipinto”. La personale imitatio Christi di Rodrigues è un'assimilazione interamente figurativa, scandita da svariate “apparizioni” e la sua relazione con il Christus patiens di tradizione medievale è trasposta concreta e, al tempo stesso, trascendente: quando la stessa immagine di Cristo si rivelerà uno strumento utilizzato dalle autorità giapponesi per abiurare, nel missionario gesuita verranno alla luce tutte le zone grigie della propria fede.

Il silenzio di Dio

Per il regista, Dio non può essere un'immagine statica, né tantomeno vi si può cercare in essa un conforto che sia solamente umano: per questo l’immagine di Cristo, una tana consolatoria nella mente di Rodrigues per tutta la vicenda, s’oscura nel momento in cui diventa l’oggetto da calpestare, verso cui abiurare. Già in The Departed (2006) Scorsese aveva mostrato come l'icona del Sacro Cuore nella casa dell'agente Queenan non avrebbe potuto salvarlo dal sacrificio estremo che, di lì a poco, avrebbe compiuto. Come allora, anche in Silence Scorsese fa leva sull’importanza dell’immagine per la cultura occidentale, anche se assume i toni di un’icona silenziosa davanti al male gratuito del mondo. Valgano qui, le parole di Papa Francesco, che rivolgendosi ai vescovi del Giappone ha detto: “Il male non fa preferenze di persone e non si informa sulle appartenenze; semplicemente irrompe con la sua forza distruttiva”.

La “lotta interiore” del gesuita

Quando, infine, Rodrigues incontra Ferreira, il gesuita su cui gravava il sospetto di abiura, crollano le sue ultime certezze. Ferreira, suo maestro di noviziato, gesuita come lui, non solo ha abiurato, ma continua a sostenere l'impossibilità di evangelizzazione in Giappone. In questa tenzone teologica, Rodrigues si mostra sulla difensiva, indietreggia. Ancora una volta, la sua immagine del mondo e delle cose si scompone davanti alla realtà: Ferreira non è più il gesuita che pensava di conoscere, è un traditore, alla stregua di Kichijiro, che tradisce e chiede perdono: che idea Rodrigues ha del perdono davanti alla perseveranza della colpa? È una domanda per niente marginale per lui, perché sdogana la sua immagine di Dio e, di riflesso, anche la sua. Il Giappone aveva bisogno di evangelizzatori, non di supereroi.

Come ha ricordato Papa Francesco, è la fecondità che fa germogliare la fede, non la quantità: “La via del Signore ci mostra come la vostra presenza si gioca nella vita quotidiana del popolo fedele, che cerca il modo di continuare a rendere presente la memoria di Lui; una presenza silenziosa, una memoria viva che ricorda che dove due o più sono riuniti nel suo nome, Lui sarà lì, con la forza […]. Voi siete una Chiesa viva, che si è conservata pronunciando il Nome del Signore e contemplando come Lui vi guidava in mezzo alla persecuzione“.