Il vescovo africano: “L'accoglienza da sola non basta”

Il Sinodo appena concluso ha dato la possibilità di conoscere in maniera più approfondita il punto di vista delle realtà ecclesiali più lontane da noi ma alle prese con problemi che riguardano anche noi europei. E' il caso, ad esempio, delle Chiese africane che si trovano a vivere direttamente l'altra faccia della medaglia di un dramma comune all'Europa, quello delle migrazioni. La Guinea Equatoriale è uno di quei Paesi africani in cui non si registrano ingenti flussi in uscita, ma soltanto in entrata da Stati confinanti come il Ciad ed il Camerun. Tuttavia, su quello che è il tema probabilmente più sentito dell'epoca contemporanea, l'episcopato africano si è presentato al Sinodo con un'unica voce, dando dimostrazione di realismo e fraternità. In rappresentanza della Guinea Equatoriale, il Sinodo ha visto la partecipazione di monsignor Miguel Angel Nguema Bee, vescovo di Ebebiyin. In Terris lo ha intervistato a poche ore dalla chiusura dell'Assemblea dei vescovi sui giovani. 

Eccellenza, qual è stato il contributo originale che voi Padri Sinodali africani avete portato al Sinodo?
“Come vescovi africani siamo venuti ad unire la nostra voce a quella della Chiesa portando le nostre preoccupazioni specifiche; penso, ad esempio, all'immigrazione, all'educazione scolastica e al problema della violenza che fa sì che alcuni Paesi africani non riescano a svilupparsi a causa delle guerre e delle persecuzioni. Siamo consapevoli del fatto che il Sinodo non può aver dato tutte le risposte alle nostre attese, ma – una volta tornati a casa – intendiamo portare nelle nostre diocesi molto di ciò che abbiamo ascoltato durante queste settimane”. 

Avete avuto modo di confrontarvi con i vescovi di tutto il mondo. Alla luce di ciò, quali Chiese hanno espresso esigenze più vicine alle vostre nel corso dei lavori? 
“Tanti Paesi sudamericani assomigliano a quelli africani. Quindi, con le Chiese dell'America Latina abbiamo le stesse preoccupazioni per le condizioni dei più poveri e cerchiamo di portare avanti una comune dimensione sociale del Vangelo”.

L'Africa si presenta oggi come un continente “mobile”, il più coinvolto dalle migrazioni sia interne che esterne. Ne sono la prova anche gli ingenti sbarchi sulle coste italiane. Qual è la vostra posizione, come Chiese locali, di fronte ai numeri da esodo dell'ultimo decennio?
“Prima di tutto non bisogna mai dimenticare che il fenomeno migratorio è ciclico nella storia, perchè l'essere umano tende sempre a cercare migliori possibilità di vita. Basti pensare agli italiani che sono andati negli Stati Uniti nel secolo scorso. Siamo di fronte, quindi, ad un movimento naturale perché l’essere umano è fatto per inseguire condizioni di vita migliori. Ma bisogna distinguere tra migrazione volontaria e migrazione forzata; in alcuni Paesi africani, infatti, c’è la guerra e la marginalizzazione di intere categorie di persone. La scelta di andare in Europa o in altri Stati dell'Africa è dettata dalla necessità di fuggire dalla guerra. Capisco che qui in Italia lo straniero che arriva possa far paura, perché anche l’italiano vuole avere opportunità di lavoro. D'altronde, l'arrivo di colui che non avevamo programmato – come ha detto il Papa ieri commentando il passo evangelico dell'incontro tra Bartimeo e Gesù – tende sempre a spaventare un pò. Ma la Chiesa non può dire di cacciare i migranti, ma ha il dovere di invitare ad accoglierli, accompagnarli e proteggerli. La Chiesa non lo può dire perché quella della partenza è una soluzione che queste persone non hanno scelto. C’è qualcosa di molto forte che li spinge a rischiare così tanto la vita; chi emigra sa che può perire durante il viaggio, ma l'alternativa è una morte immediata causata dalla guerra. Quella delle migrazioni è una realtà molto complessa su cui i vescovi africani si sono espressi durante il Sinodo auspicando che la voce della Chiesa attiri l'attenzione dei politici affinchè il dialogo su questa questione diventi molto più costruttivo e gli organismi internazionali possano condurre i Paesi sconvolti dalla guerra a raggiungere la pace. Questo vale in particolare per le istituzioni europee: devono essere solidali, non guardare con indifferenza alla realtà africana perchè più continuano le guerre, più ci saranno rifugiati pronti a partire per sopravvivere”. 

Su questo tema, cosa si sentirebbe di consigliare alle istituzioni europee alle prese con la difficile gestione di flussi così imponenti?
“La Chiesa deve far sentire la sua voce all'interno degli organismi internazionali. A questi ultimi, infatti, spetta il compito di intervenire su quei governi e quelle multinazionali occidentali responsabili della violenza diffusa in alcuni Paesi africani. Accoglierli soltanto non basta, l'Europa deve farsi artefice di una politica di dialogo efficace che riesca a mettere fine a mali come la vendita delle armi e il sostegno delle dittature. Molte volte, infatti, i grandi del mondo fanno dei bei discorsi ufficiali sulla situazione in Africa, ma al tempo stesso chiudono gli occhi sulle ingiustizie perpetrate da chi guadagna con le armi e con il petrolio. La sofferenza del nostro continente, però, non è colpa solo dell'Occidente, ma degli africani stessi che accolgono queste multinazionali. Troppo spesso l’interesse economico prevale su quello della vita delle persone”.

I vostri fedeli che emigrano in Europa arrivano da Paesi in cui il cattolicesimo sta vivendo una fase d'espansione. Non teme che il contatto con l'ambiente secolarizzato del Vecchio Continente possa incidere negativamente su di loro?
“Ho uno sguardo più positivo su questo aspetto. I gruppetti di cattolici africani venuti in Europa possono costituire fermenti significativi in una società dove la maggioranza della popolazione è così indifferente alla religiosità. Sono stato due anni fa in una parrocchia a Valencia ed ho visto che il coro era composto tutto da fedeli africani capaci di trasmettere allegria e gioia alla comunità. Può esserci una doppia influenza. Ci sarà chi adotterrà uno stile di vita secolarizzato ma saranno più numerosi i nuclei di cristiani che porteranno benefici spirituali alle comunità occidentali”. 

Che tipo di messaggio porterà dal Sinodo una volta tornato in Guinea Equatoriale?
“Un messaggio di speranza che quest'intervista ben simboleggia: un giovane che intervista un adulto. Io credo che i cambiamenti benefici per la Chiesa e per la società verranno proprio da questa capacità di avvicinamento tra generazioni e culture”.