Il Papa: “E' vano negare la storia”

La vita cristiana attraversa sempre momenti di croce, e talvolta sembrano interminabili”. Lo ha detto Papa Francesco nel Parco Santakos di Kaunas in Lituania (dove giunse nel 1993 anche Giovanni Paolo II), durante la prima Messa del suo viaggio apostolico nelle Repubbliche baltiche, ricordando ai 100 mila fedeli che “San Marco dedica tutta una parte del suo Vangelo all’insegnamento rivolto ai discepoli. E' come se Gesù, a metà del cammino verso Gerusalemme, volesse che i suoi rinnovassero la loro scelta, sapendo che questa sequela avrebbe comportato momenti di prova e di dolore”. Ad esempio, ricorda, “le generazioni passate avranno avuto impresso a fuoco il tempo dell’occupazione, l’angoscia di quelli che venivano deportati, l’incertezza per quelli che non tornavano, la vergogna della delazione, del tradimento”. E, rivolgendosi ai presenti: “Quanti di voi hanno visto anche vacillare la loro fede perché non è apparso Dio per difendervi; perché il fatto di rimanere fedeli non è bastato perché Egli intervenisse nella vostra storia. Kaunas conosce questa realtà; la Lituania intera lo può testimoniare con un brivido al solo nominare la Siberia, o i ghetti di Vilnius e di Kaunas, tra gli altri”.

Negare la storia

I discepoli, però, non volevano che Gesù parlasse loro di dolore e di croce: “Non vogliono sapere nulla di prove e di angosce. E San Marco ricorda che erano interessati ad altre cose, che tornavano a casa discutendo su chi fosse il più grande. Fratelli, il desiderio di potere e di gloria è il modo più comune di comportarsi di coloro che non riescono a guarire la memoria della loro storia e, forse proprio per questo, non accettano nemmeno di impegnarsi nel lavoro del presente”. Ed ecco che, in questo contesto, “si discute su chi ha brillato di più, chi è stato più puro nel passato, chi ha più diritto ad avere privilegi rispetto agli altri. E così neghiamo la nostra storia”. E' un atteggiamento sterile e anche vano, avvisa il Santo Padre, ricordando che induce a rinunciare “a coinvolgersi nella costruzione del presente perdendo il contatto con la realtà sofferta del nostro popolo fedele. Non possiamo essere come quegli 'esperti' spirituali, che giudicano solo dall’esterno e passano tutto il tempo a parlare di 'quello che si dovrebbe fare'”.

I piccoli “in mezzo”

Gesù, sapendo quello che pensavano, “propone loro un antidoto a queste lotte di potere e al rifiuto del sacrificio; e, per dare solennità a quello che sta per dire, si siede come un Maestro, li chiama, e compie un gesto: mette un bambino al centro; un ragazzino che di solito si guadagnava gli spiccioli facendo le commissioni che nessuno voleva fare. Chi metterà in mezzo oggi, qui, in questa mattina di domenica? Chi saranno i più piccoli, i più poveri tra noi, che dobbiamo accogliere a cent’anni della nostra indipendenza? Chi è che non ha nulla per ricambiarci, per rendere gratificanti i nostri sforzi e le nostre rinunce?”. Forse, spiega il Pontefice, “sono le minoranze etniche della nostra città, o quei disoccupati che sono costretti a emigrare. Forse sono gli anziani soli, o i giovani che non trovano un senso nella vita perché hanno perso le loro radici”. Ma cosa significa “in mezzo”? Essere equidistante, “in modo che nessuno possa fingere di non vedere”.

Una Chiesa in uscita

Il nucleo centrale è questo: “Essere una Chiesa 'in uscita'”, e soprattutto “non aver paura di uscire e spenderci anche quando sembra che ci dissolviamo, di perderci dietro i più piccoli, i dimenticati, quelli che vivono nelle periferie esistenziali”. Questo pur sapendo che “quell’uscire comporterà anche in certi casi un fermare il passo, mettere da parte le ansie e le urgenze, per saper guardare negli occhi, ascoltare e accompagnare chi è rimasto sul bordo della strada”. Per questo, ricorda il Santo Padre ai fedeli presenti a Kaunas, “oggi siamo qui, ansiosi di accogliere Gesù nella sua parola, nell’Eucaristia, nei piccoli. Accoglierlo affinché Egli riconcili la nostra memoria e ci accompagni in un presente che continui ad appassionarci per le sue sfide, per i segni che ci lascia; affinché lo seguiamo come discepoli, perché non c’è nulla di veramente umano che non abbia risonanza nel cuore dei discepoli di Cristo, e così sentiamo come nostre le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini del nostro tempo, soprattutto dei poveri e dei sofferenti”.