Ed ora un'enciclica sul nucleare?

Giunti quasi al termine del 32esimo viaggio apostolico, sono tante le immagini che potrebbero riassumere il cammino di Papa Francesco. Sensibile allo spirito missionario, il Pontefice ha portato in Asia orientale il carisma del gesuita, facendosi prossimo al popolo di Dio nelle ferite di ieri e di oggi. Non è scontato avvicinarsi agli ultimi, anche per un Papa “venuto dai confini del mondo” e divenuto un piccolo puntino bianco davanti all'oscurità del disastro di Hiroshima e Nagasaki. Il Papa ha, così, colto l'occasione per ribadire la posizione “immorale” nell'uso e nella detenzione di armi nucleari. Per Alessandro Acciavatti, storico delle istituzioni, la ferma posizione di Papa Francesco si può comprendere se si riconosce il suo ruolo quale Capo di Stato, che ha portato con sé la testimonianza già a suo tempo ribadita da Papa Giovanni XXIII e Paolo VI.

Dott. Acciavatti, Francesco è il secondo Pontefice ad essersi recato in Giappone. Ma “quale Francesco” ha parlato ad Hiroshima? Il gesuita, il vescovo di Roma o il Capo di Stato?
“Sicuramente, in Giappone c'è Papa Francesco il gesuita che, non dimentichiamolo, si muove sulle orme di San Francesco Saverio. Vanno, però, fatte delle opportune distinzioni. In Giappone, Bergoglio va come capo di Stato: a Hiroshima e Nagasaki, lui ha parlato da grande leader mondiale, riferendosi ai suoi colleghi capi di Stato quando ha implorato di arrestare la corsa agli armamenti atomici. In Thailandia, Bergoglio è sicuramente andato come capo religioso, presentandosi da 'vescovo di Roma', lo stesso che aveva fatto nel suo discorso a Cuba, dicendo: 'Siamo cristiani, siamo vescovi'”, per porsi allo stesso livello degli altri leader religiosi da lui incontrati”.

Papa Francesco invita alla denuclearizzazione come leader politico, dunque?
“Sì, e in questo senso si spiega l'aver inviato il Segretario di Stato, il card. Pietro Parolin, alle Nazioni Unite nel settembre 2019. Trovo, inoltre, che i due discorsi del Pontefice a Hiroshima e Nagasaki siano sovrapponibili con un altro discorso da lui stesso pronunciato: quello tenuto il 13 settembre 2014 al Sacrario militare di Redipuglia perché, in entrambi i casi, è ferma la condanna alla vendita delle armi. In questo, è ravvisabile la consonanza tra Papa Francesco e Paolo VI. Anche in questo fu 'rivoluzionario': a suo tempo, Papa Montini volle che la Santa Sede aderisse al Trattato di non proliferazione nucleare. Fu un fatto simbolico, visto che in Vaticano, ovviamente, non si producono armi. Eppure, in quest'azione, Paolo VI disse al mondo da che parte stava la Santa Sede. Il prossimo febbraio scadrà il trattato che mette al bando le armi nucleari a corto raggio, che sono sì più piccole delle imponenti testate atomiche, ma più pericolose. L'appello del Papa si rivolge anche al prossimo futuro, tant'è che lui stesso ha menzionato l'agenda “2030”.

L'impegno della Santa Sede per la denuclearizzazione è radicato…
“Oggi il problema sono gli ordigni atomici e le armi chimiche. Su questo la Chiesa ha avuto sempre grande coerenza, specialmente da un punto di vista geopolitico oltreché morale. Il punto di partenza per capire la direzione verso cui va la Chiesa di Roma è la Pacem in Terris, l'ultima enciclica giovannea. Il legame con Papa Giovanni XXIII in questo viaggio è evidentissimo per rintracciare il punto di partenza della dottrina della Santa Sede contro le armi atomiche. Papa Roncalli fu il Papa della pace e Francesco riprende tanto il suo magistero. Non si dimentichi che la 'crisi dei missili' di Cuba fu risolta grazie all'apporto di Giovanni XXIII, che allora mandò un messaggio di pace sia a Krusciov che a Kennedy. Nel “Nunca más” che Francesco ha pronunciato ieri a Hiroshima si ravvisa il “Jamais plus la guerre” pronunciato da Paolo VI per ben tre volte al Palazzo di Vetro delle Nazioni Unite nel 1965″.

Secondo lei, è ipotizzabile un'enciclica sul nucleare?
“Non è da escludere. Il problema delle armi atomiche si lega bene all'enciclica Laudato si' sulla tutela dell'ambiente. Non si dimentichi che il Papa ha concluso da poco i lavori del Sinodo sull'Amazzonia e questo sicuramente influirà nelle riflessioni che il Pontefice farà su questo viaggio alla vigilia dell'esortazione post-sinodale”.

In che senso?
“Il Sinodo per l'Amazzonia è stato voluto perché si preservi il 'polmone del mondo'. Le armi atomiche, al contrario, vogliono distruggere il mondo e il loro potenziale è devastante. Inoltre, in questo senso, non si può trascurare l'enorme problema delle scorie radioattive. Il tenore tenuto dal Pontefice davanti a questi incontri non è tanto diverso davanti a quelli che si terrebbero davanti alle vittime dei campi di concentramento. Il Papa ha a cuore il problema, tant'è che ne aveva già parlato nella lettera ai vescovi nipponici inviata due anni fa. C'è un altro tema interessante: il Giappone è, per la maggior parte, shintoista, aderisce cioè a una religione che è una filosofia di vita, che punta a toccare un equilibrio con la natura. Il contrasto all'abuso del nucleare di Papa Francesco va in questa direzione. D'altronde, in latino la parola 'pontifex' significa 'costruttore di ponti'”.

Nel confronto fra due Stati, quanto sono antichi i rapporti fra Giappone e Santa Sede?
“Direi che sono antichissimi. Nel Salone dei Corazzieri al Palazzo del Quirinale – in cui, ricordiamolo, soggiornarono ben trenta Pontefici – c'è una lunetta che ricorda un episodio del 1615: alcuni dignitari giapponesi,accompagnati da un frate francescano, fecero visita a Papa Paolo VI. Partirono in 180 e ne arrivarono in 28. Si dice che Papa Borghese fu talmente colpito dalla loro testimonianza, che diede loro la cittadinanza onoraria romana. In un secondo momento, essi stessi si convertirono al Cristianesimo e rimasero a Roma per ben sette anni. Al loro ritorno in Giappone, però, nel pieno delle persecuzioni cristiane, furono uccisi. È un episodio interessante, che svela l'antichità dei rapporti fra i due Stati. Una peculiarità della Chiesa giapponese è che è si tratta di una Chiesa fondata da laici. Riferendosi a cristiani sotto il regime dell'Unione sovietica, Papa Pio XII parlava di 'Chiesa del silenzio'. Per i Giapponesi si parla di “Cristiani nascosti”. 

Che significato religioso riveste, invece, questo 32esimo viaggio apostolico?
“Ha un significato profondo. La tappa importante da questo punto di vista è stata in Thailandia, dove Papa Francesco ha incontrato il Patriarca Supremo dei Buddhisti. In questo, il Pontefice spiazza: avrebbe potuto regalare al leader religioso una medaglia del suo Pontificato o l'Evangelii Gaudium come fece con il presidente Usa, Donald Trump; invece, ha dato in dono una copia del Documento sulla Fratellanza Umana per la Pace Mondiale e la Convivenza Comune firmato ad Abu Dhabi. Non è un aspetto poco rilevante: con questo, il Papa vuole dire 'Cerchiamo di intraprendere un dialogo fra Cattolici e Buddhisti, così come abbiamo fatto con in Musulmani”. 
Nel discorso ai sacerdoti thailandesi, Papa Bergoglio ha tenuto senz'altro a mente il rapporto proficuo con il Papa emerito Benedetto XVI. Lo ha citato diverse volte, richiamandosi soprattutto al discorso dell'allora Papa Ratzinger al Santuario dell'Aparecida: 'La Chiesa non fa proselitismo. Essa si sviluppa piuttosto per 'attrazione': come Cristo 'attira tutti a sé' con la forza del suo amore, culminato nel sacrificio della Croce, così la Chiesa compie la sua missione nella misura in cui, associata a Cristo, compie ogni sua opera in conformità spirituale e concreta alla carità del suo Signore'.
Parlando davanti alle autorità thailandesi, invece, Papa Francesco ha invitato ad essere 'artigiani dell'accoglienza'. La ragione profonda è che Bergoglio capisce il 'problema' dell'immigrazione nel sud-est asiatico proprio perché è anch'egli figlio di migranti. È la prima volta che la Chiesa ha un Pontefice figlio di migranti, che ben conosce la sofferenza della famiglia, costretta a lasciare l'Italia. Questo spiega la missione di Bergoglio. Una missione che non può che attuarsi in cammino”.