Ebrei deportati, una ferita che non smette di sanguinare

Il 16 ottobre del 1943 cadeva di sabato. Le Ss scelsero quella data appositamente: era il giorno del riposo per gli ebrei che celebravano anche la festa del Succot. In questo modo, i militari nazisti erano sicuri di trovarli in casa. La Gestapo piombò nei vicoli del Portico d'Ottavia e tra le 5 e le 14 rastrellò migliaia di romani di fede ebraica. Non solo l'ex Ghetto: non furono risparmiati anche gli altri quartieri della Capitale, da Trastevere a Testaccio, da Monteverde alla Salaria. Milleduecentocinquantanove persone, tra cui 207 bambini, furono trasportati forzatamente nel Collegio militare per poi essere deportati, dopo un estenuante viaggio di cinque giorni senza cibo e acqua, ad Auschwitz. Dopo la fine della guerra, dal campo di concentramento polacco tornarono a casa soltanto 16 persone, 15 uomini ed una sola donna. Nessun bambino. A 75 anni da una data che costituisce una ferita aperta anche nella memoria collettiva del nostro Paese, In Terris ha intervistato il professor Claudio Vercelli, docente di Storia Contemporanea all'Università Cattolica di Milano e redattore della rivista “Shalom” della Comunità ebraica di Roma.

Come si viveva nell'ex Ghetto di Roma fino a quel 16 ottobre 1943? 
“Dopo i fatti di Porta Pia del 1870, anche gli ebrei romani poterono godere degli statuti di emancipazione già riconosciuti ai cittadini italiani di origine ebraica del resto del Regno. Al momento dell'annessione dell'ex Stato pontificio, nella comunità ebraica di Roma la maggioranza era formata da persone poco abbienti, che svolgevano attività commerciali modeste. Con l'unificazione definitiva, il conseguente mutamento della condizione giuridica comportò anche una trasformazione dal punto di vista sociale che permise ad una parte dell'ebraismo romano di accedere progressivamente, in quanto cittadini, a posizioni migliori rispetto al passato. Quella comunità restava però di estrazione popolare, dal punto di vista economico, sociale e culturale e si caratterizzava per la massima integrazione nel tessuto urbano e per la condivisione di relazioni e spazi con concittadini non ebrei”. 

Questo è uno dei motivi per cui la comunità ebraica salutó entusiasticamente la nascita del nuovo Stato italiano?
“L'ebraismo romano – come quello italiano in generale – aderisce in toto a quelle che sono le ragioni dell'Unità d'Italia perchè vi vede – e a ragione – la possibilità di emancipazione giuridica e in prospettiva di quella economica e sociale. Un aspetto molto rilevante; lo Stato italiano non faceva distinzioni nei confronti delle minoranze acattoliche e questo dato comportò il mutamento della condizione degli ebrei romani, dando loro una prospettiva per la prima volta rilevante. Gli ebrei romani iniziarono a partecipare all'attività politica e diventarono parte attiva del tessuto della società italiana di quei decenni come dimostra la partecipazione alla Grande Guerra. Una partecipazione propria di cittadini che si sentirono parte di un percorso collettivo”. 

Con le “leggi razziste”, dunque, il regime tradì quell'Italia di Vittorio Veneto – fatta anche con il sangue dei soldati italiani ebrei – che Mussolini disse di voler portare al re quando assunse la carica di capo del governo nel 1922. 
“Senz'altro. Un tradimento duplice della lealtà di cittadini che mai avevano messo in discussione la loro italianità. Intanto perchè gli ebrei italiani si sentirono abbandonati da un regime a cui, pur non riponendo alcuna fiducia, non disconobbero la legittimità. Un doppio tradimento, poi, in quanto esercitato anche da istituzioni che fasciste non erano; la scelta delle leggi razziste, infatti, seppur patrimonio negativo comune del regime, fu avvalorata da organismi di potere compresenti e compartecipi nell'Italia di allora; la monarchia in primis”. 

La retata del 16 ottobre '43 fu possibile per via degli elenchi, frutto della schedatura voluta da Mussolini tra il '38 ed il '39, che le Ss presero dall'Ufficio Demografia e Razza. Perchè non furono distrutti dopo il 25 luglio? C'è una responsabilità che va oltre il regime fascista? 
“Domanda molto pertinente. In realtà, coloro che non erano fascisti – o quantomeno non erano totalmente compromessi con il fascismo – e gestirono la transizione tra il 25 luglio e l'8 settembre 1943 non si curarono minimamente della pericolosità di questi elenchi che erano stati raccolti in vario modo, a partire dal censimento del 1938. Non erano una questione prioritaria per loro e si comportarono di conseguenza. In generale, il modo in cui Roma – e di riflesso l'Italia – furono abbandonati a sè stessi in quei giorni drammatici successivi all'8 settembre, segnò uno spartiacque dal significato preciso e rilevante per il destino degli ebrei dell'ex Ghetto. Si capiva benissimo che l'atteggiamento tedesco sarebbe stato quello che poi effettivamente si manifestò, ovvero il saccheggio del territorio e la politica di eliminazione degli italiani ebrei e di quelli non italiani presenti nel territorio nazionale. Si poteva prevedere anticipatamente quanto avvenne il 16 ottobre 1943, ma chi si trovò a gestire quella fase non era interessato a porre un qualche rimedio alla politica razzista del fascismo. Basti pensare che le prime misure formali assunte dal governo Badoglio per attenuare una parte degli effetti delle leggi razziste furono assunte solo nel febbraio del 1944. Questo la dice lunga sugli ordini di priorità e fa emergere la sostanziale indifferenza di quelle autorità nei confronti di molti concittadini e connazionali che finirono sotto il controllo dei tedeschi”. 

Nelle testimonianze sulla notte del rastrellamento di 75 anni fa, alcuni sopravvissuti hanno raccontato del loro stupore in quanto non si aspettavano di essere deportati. Questa percezione dipendeva dal fatto che il regime fascista fosse ormai crollato o dalla convinzione diffusa all'epoca che i nazisti avrebbero risparmiato la Città Eterna? 
“Sicuramente influirono entrambi gli aspetti. Oltre a un terzo elemento personale diffuso. C'era l'idea illusoria che il territorio italiano sarebbe stato trattato diversamente dai tedeschi; l'idea che una vecchia alleanza potesse tramutarsi in pochi mesi in un'occupazione militare, per quanto non del tutto estranea, risultava quantomeno improbabile. C'è poi la componente legata a Roma in quanto centro della cattolicità; si pensava, infatti, che i tedeschi si sarebbero astenuti dal compiere una razzia nell'ex Ghetto perchè una simile azione avrebbe arrecato un'offesa allo stesso Vaticano. Ma c'è un terzo elemento personale. Davanti a situazioni estreme le persone, se non hanno gli strumenti per affrontarle, tendono a spostare il problema dal punto di vista mentale. Gli ebrei romani, reduci da anni di emarginazione sociale e di impoverimento sistematico a causa del regime prima e della guerra poi, non avevano grosse risorse per poter abbandonare le loro case improvvisamente. Così, si confortarono umanamente nella speranza che tutto quello che poi – effettivamente – sarebbe successo in realtà non doveva e non poteva capitare. Un atteggiamento umano molto comprensibile, specialmente in una realtà in profondo cambiamento come quella successiva al 25 luglio 1943”.

 C'era persino un tariffario per denunciare gli ebrei: 1.500 lire un bambino, 3.000 per una donna e 5.000 per un uomo. Non crede che i romani – e gli italiani in generale – si siano autoassolti troppo facilmente? 
“In tempi di guerra esisteva una parte di italiani con minore capacità di autodifesa etica pronta a denunciare connazionali ebrei per avere in contropartita del denaro, ma anche soltanto sacchi di sale. Questo fa riflettere su quanto situazioni radicali possano far emergere comportamenti altrettanto estremi. Il problema, però, non è solo quanto è ormai compiuto, perchè la storia non si può riarrotolare come fosse un tappeto, ma in che modo tutto ciò viene rielaborato successivamente. Bisogna maturare la capacità di riflettere criticamente non solo sulle responsabilità dei fascisti e dei nazisti, ma anche sul coinvolgimento silenzioso di una parte della società italiana. Nel nostro Paese, un'attività a lungo esercitata è quella della rimozione, del dire 'noi non c'entriamo, la colpa è dei cattivi unni che sono arrivati qui a deportare gli ebrei'. In realtà, non è così; qualsiasi regime sterminazionista basato sul razzismo di Stato non si fonda solo sulla presenza di alcuni carnefici che, malgrado tutto, sono un numero limitato. Qualsiasi regime ingiusto, infatti, si basa sulla silenziosa connivenza dei più che non necessariamente denunciano chi cerca di sfuggire alle violenze, ma semplicemente sono indifferenti a quanto sta avvenendo attorno a loro. L'indifferenza è un problema profondo del passato, ma – fatte le tante debite differenze – anche del presente perchè il principio di umanità non è un valore generico, ma si esprime nell'agire quotidiano di ogni persona. Fino agli anni '80 del secolo scorso le violenze, le persecuzioni e le eliminazioni degli ebrei costituivano un argomento marginale nel racconto della storia di quegli anni. La consapevolezza del loro impatto non solo sulle vittime ma anche sul resto della società è un'acquisizione degli ultimi decenni. Quando si colpisce una minoranza, si produce un effetto anche sul resto della società perchè le ferite e le cicatrici non valgono solo per quelli che hanno subito offese ma anche per coloro che vi hanno assistito”. 

In Danimarca, territorio occupato, e in Bulgaria, principale alleato del Terzo Reich nell'Est, la popolazione scese in piazza e riuscì ad impedire de facto la deportazione dei loro compatrioti di fede ebraica. Perchè lo stesso non avvenne in Italia?
“In Danimarca l'occupazione nazista fu percepita subito per quello che era; ovvero, non solo un'imposizione militare ed una violazione della sovranità, ma soprattutto un'offesa al corpo civile in quanto tale senza stabilire distinzione tra cittadini ebrei e non. L'estensione delle misure antisemitiche tedesche in territorio danese era quindi vissuta da tutti, a partire dalle stesse autorità, come un'offesa all'integrità nazionale. La cittadinanza era vissuta anche in regime di occupazione come una dimensione collettiva etica. Un discorso simile si può fare per la Bulgaria che si sforzò, dicendo 'no' alle deportazioni, di preservare in questo modo la propria autonomia rispetto a un alleato così imponente e ingombrante come la Germania. Il regime nazista, infatti, cercava con questi mezzi di esercitare la sua potenza nei confronti dei suoi interlocutori anche quando questi ultimi non erano avversari ma alleati. Questo è un dato da tenere in considerazione e che introduce effetti differenziati sul piano politico e quindi sulla possibilità o meno di salvare le persone. In questo senso, nel nostro Paese ci fu una grande debolezza non del fascismo, ma dell'italianità in generale. E' vero che una parte di italiani si adoperarono singolarmente per salvare i loro connazionali ebrei e ci fu il fenomeno diffuso dei giusti, tuttavia quest'opera benemerita non sostituisce la mancanza di una volontà politica collettiva che difettò completamente in Italia e portò il nostro Paese a lutti e a rovine”.