Casaroli, quattro decenni di ostpolitik

Un anno dopo l’elezione al Soglio di Pietro, Karol Wojtyla nomina Agostino Casaroli pro-segretario di Stato e pro-prefetto del Consiglio per gli Affari Pubblici della Chiesa. Poche settimane dopo, nel suo primo concistoro gli conferisce la porpora cardinalizia. “Casaroli è stato il maggior artefice della strategia del dialogo della Santa sede con l’Est comunista – sottolinea Civiltà Cattolica -. Alle prudenti aperture di Giovanni XXIII in materia di rapporti con il mondo comunista (in particolare con l’Urss di Krusciov) fece seguito la svolta voluta da Paolo VI, che impegnò la Santa Sede, e alcuni settori della diplomazia vaticana, in un lento e faticoso tentativo di dialogo con i Paesi del blocco comunista, che avrebbe poi avviato la cosiddetta Ostpolitik, secondo una terminologia coniata dalla diplomazia tedesca nel periodo del cancelliere Willy Brandt, e che dagli osservatori politici fu immediatamente applicata anche all’attività svolta in quel tempo dagli “inviati” della Santa Sede nei Paesi d’Oltrecortina. Tale impresa, volta a tutelare gli interessi cattolici nei Paesi comunisti e a promuovere i diritti umani generalmente misconosciuti, non fu facile e, sebbene contestata da molti sul fronte occidentale, non fu inutile”. Per capire Casaroli occorre approfondire il pontificato di Karol Wojtyla. “Il 16 ottobre 1978 fu un giorno incredibile, straordinario. Lo si capirà più tardi, ma era l’inizio di una nuova storia, e non soltanto per la Chiesa cattolica- sottolinea il decano dei vaticanisti, Gianfranco Svidercoschi, amico e collaboratore di Giovanni Paolo II.-Era stato eletto Papa l’arcivescovo di Cracovia. Un cardinale che arrivava da dietro la Cortina di ferro, dall’impero sovietico, giacché il mondo era ancora diviso tra i due blocchi politico-militari. Il primo Papa non italiano dopo 456 anni. Una novità che segnava la fine del monopolio italiano sul papato. E proprio per questo, malgrado l’entusiastica accoglienza popolare, una novità mal digerita da molti, dentro e fuori il Vaticano”. Giovanni Paolo II volle parlare subito alla folla in piazza san Pietro, o che nel mondo era attaccata ai televisori. Si presentò come “vescovo di Roma”, come pastore; non come Papa, non come capo di uno Stato, come monarca.

Uno stile innovativo

“Ma quando arrivò al famoso 'se mi sbaglio mi corigerete', il cerimoniere accanto a lui poteva permettersi di soffiargli in un orecchio: 'E adesso basta!'- racconta Svidercoschi-. E il giorno dopo, andato Karol Wojtyla a visitare un amico prete ricoverato all’ospedale Gemelli, quello che era allora il più autorevole giornale italiano intitolò a tutta pagina: “Il Papa straniero per le vie di Roma”. Straniero. E invece si trattava di un evento che dava finalmente un significato reale, visibile, concreto – e un bel po’ di credibilità in più – alla universalità della Chiesa cattolica. Poi sarebbe arrivato un Papa tedesco. E poi un Papa addirittura dal sud del mondo, argentino”. Forse non si è ancora abbastanza riflettuto su questo, ma era il tramonto definitivo dell’eurocentrismo ecclesiale. Come dire che il cattolicesimo europeo non poteva più essere il solo a interpretare (o, almeno, a pretendere di interpretare) il “logos” cristiano. “Di fatto, era cominciato il tempo in cui, sulla cattedra di Pietro, salivano Pontefici che si portavano dietro le ricchezze spirituali delle proprie Chiese, le caratteristiche delle proprie regioni, la cultura dei propri popoli: aprendo così la Chiesa universale, come del resto aveva chiesto il Concilio Vaticano II, a una pluralità di carismi, di modi di vivere la fede, di esperienze pastorali e missionarie- evidenzia Svidercoschi.- Ed è inevitabile che questa novità, anche se ancora così frammentata e frammentaria, debba provocare malumori, polemiche, contrarietà, resistenze”.

La polifonia wojtyliana

“Loro”. Anche dopo molti anni trascorsi sul Soglio di Pietro, Giovanni Paolo II era solito esprimersi così nei colloqui riservati quando si riferiva alla Curia vaticana: quasi un segno dell’alterità se non proprio della resistenza che per tutta la vita avvertì nel governo centrale della Chiesa. Un merito che persino i suoi più irriducibili oppositori e critici hanno seppur tardivamente riconosciuto a Karol Wojtyla è stato quello di essere stato per vocazione naturale un talentuoso “direttore d’orchestra” in grado di scegliere per i posti-chiave personalità tra loro diversissime ma tutte di grande caratura. Scelte tutt’altro che scontate come quella dell’insigne biblista ma non ancora presule Carlo Maria Martini per la guida dell’arcidiocesi di Milano, una delle più grandi del mondo e poi anche degli episcopati europei o del diplomatico-padre della ostpolitik vaticana Agostino Casaroli come Segretario di Stato o ancora del semisconosciuto vescovo ausiliare Camillo Ruini alla presidenza della conferenza episcopale italiana e soprattutto del teologo tedesco Joseph Ratzinger per la fondamentale Congregazione per la Dottrina della fede, l’ex Sant’Uffizio. In particolare la designazione nel 1981 del futuro Benedetto XVI per un incarico determinante nell’economia di un pontificato conferma la lungimiranza e il talento di Giovanni Paolo II nell’individuare personalità eccellenti malgrado la contrarietà dei circoli progressisti che consideravano il loro collega bavarese alla stregua di un “traditore” delle aperture conciliari alle quali aveva fattivamente collaborato come perito del Vaticano II.

Il coraggio di un leader

Per comprendere la rilevanza e il coraggio della decisione controcorrente di Karol Wojtyla occorre contestualizzarla nel clima politico-ecclesiale e culturale dell’epoca. “I contributi più ragguardevoli alla teologia di Joseph Ratzinger vanno cercati nei suoi studi sull’ecumenismo, sul dialogo interreligioso, sulla posizione del cristianesimo nel mondo contemporaneo; tuttavia, a me (filosofo) ciò che ha maggiormente interessato riguarda la sua ripresa dell’analogia entis tomista per affrontare il problema del rapporto tra ragione e fede”, osserva il filoso Massimo Cacciari, eletto due volte sindaco di Venezia  e ordinario di Estetica all’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano-. Si tratta di un ripensamento niente affatto dommatico, inquieto, aperto, pieno di considerazione per le ragioni di chi intende la relazione stessa come una radicale differenza. Nella famosa prolusione di Bonn del 1959, Un contributo al problema della theologia naturalis, sono già chiare le linee fondamentali del suo pensiero. Io non penso affatto che la conciliazione possa trovarsi semplicemente nel trasporre das Absolute, l’Assoluto, del Dio dei filosofi, nel der, egli-l’Assoluto, del Dio della fede, che chiama a sé, che ha un nome per essere chiamato”. Cacciari pensa piuttosto che la differenza rimanga e debba essere affermata intorno all’idea del presupposto – ineliminabile per la teologia e assolutamente contrario alla interrogazione filosofica. “Ma questo non significa inimicizia! All’opposto!- sottolinea-.Proprio l’assoluta differenza postula in sé la necessità della relazione! La ricerca di Ratzinger, e questo è evidente nel suo Gesù – che ho avuto l’onore di presentare in Vaticano, ascoltato da Ratzinger stesso -, si volge tutta in un senso dialettico-conciliativo. Qui sta forse il suo limite, insieme alla sua ricchezza”. Come per tutti i tedeschi i momenti più drammatici della vita di Joseph Ratzinger sono stati la guerra e l’immediato dopo-guerra e poi l’anno fatale,l’89, la caduta del Muro.

Rinnovamento del popolo di Dio

“Ratzinger è homo europaeus al 100% – sottolinea il professor Cacciari -. Da qui il tono anche esplicitamente politico del suo ecumenismo, da qui il suo dialogo con scienza e filosofia. Creare un oekumene europea che fosse modello di incontro tra ragione e fede, che costituisse una autentica comunità, esempio per il mondo – questa la sua ininterrotta “nostalgia”.E credo che esattamente questo resti del suo pontificato: la coscienza che l’universalità del cristianesimo non può sussistere senza “centro”, che l’Orbis non si dà se crolla l’Urbs. Che l’Europa ha una missione da svolgere, che può svolgerla soltanto nel dialogo tra ragione e fede, e che tale missione, sempre in pericolo, oggi lo è più che mai in passato”. E qualsiasi risposta si dia al perché della sua “rinuncia” sarà sempre insufficiente. “E’ chiaro che quel gesto affonda anche e forse soprattutto nel mistero della coscienza del singolo – spiega Cacciari -. E nessuno è, o dovrebbe, essere singolo quanto il cristiano. Altrettanto certo è che non si tratta di una ragione ( anche a prescindere da quelle strettamente personali), ma di molte, e magari anche confuse tra loro. Io credo abbia giocato un ruolo decisivo la tragica coscienza della “miseria” sua personale e della Chiesa tutta nell’affrontare quella sfida e quella missione di cui ho prima parlato. Un ritiro in cubiculum animae suae per pregare il suo Signore di rendere possibile quel rinnovamento dell’intero popolo di Dio, la cui necessità, per credenti e non credenti, egli aveva predicato lungo tutta la vita”.