Bergoglio, 50 anni al servizio degli ultimi

Mezzo secolo da parroco: prima delle baraccopoli argentine, poi del mondo intero.  “La Galilea di Bergoglio è l’America Latina fecondata dalla teologia del popolo- osserva Limes-. Variante argentina della marxisteggiante teologia della liberazione”, in auge nel subcontinente americano del secondo Novecento, di cui rifiuta gli ideologismi, gli intellettualismi, le derive violente, mentre ne condivide l’amore per i poveri e gli emarginati. Nel giorno in cui ricorre il 50° anniversario della sua ordinazione sacerdotale, Papa Francesco si reca alla Curia generalizia della Compagnia di Gesù per presentare l'opera Escritos, che raccoglie in cinque volumi  curati da José Luis Narvaja  gli scritti del gesuita Miguel ngel Fiorito (1916-2005), padre spirituale di Jorge Mario Bergoglio. L'incontro, in programma alle 18.30, sarà aperto dai saluti del preposito generale dell'ordine religioso, padre Arturo Sosa, e dal direttore de “La Civiltà Cattolica”, padre Antonio Spadaro. I testi, introdotti dalla prefazione dello stesso Pontefice e raccolti secondo l'ordine cronologico tra il 1952 e il 1991, percorrono un itinerario che include il rettorato presso l'università del Salvador a Buenos Aires, l'insegnamento come decano e professore nella facoltà di Filosofia del Collegio Massimo a San Miguel e il suo ruolo di padre spirituale e formatore. Numerosi, riferisce l'Agi, gli scritti che si occupano della Compagnia di Gesù e del discernimento spirituale, con un'attenzione anche al contesto ecclesiale e sociale dell'America latina e alla religiosità popolare. Con la pubblicazione di quest'opera “La Civiltà Cattolica” avvia le celebrazioni per il compimento dei suoi 170 anni. “Jorge Mario Bergoglio non parla del Concilio, lo attua”. La sintesi del vescovo di Mazara del Vallo, Domenico Mogavero, focalizza un tratto biografico e spirituale del pontificato di Francesco, primo papa a non aver partecipato al Vaticano II.

Dal Nuovo Mondo

Non a caso Francesco, primo vicario di Cristo proveniente dal Nuovo Mondo, ha iniziato il primo saluto ai fedeli dopo l’elezione al Soglio di Pietro dicendo “Buonasera!”, come si fa all’inizio di ogni celebrazione in Sud America. E poi ha aggiunto:”Era dovere del conclave eleggere un vescovo per Roma. Sembra che i miei confratelli cardinali abbiano dovuto andare a prenderlo quasi alla fine del mondo”. Qual è il background culturale di Bergoglio? Per lui il Concilio è un evento straordinario di grazia, che, come affermò Paolo VI, ha avuto il carattere d’un atto d’amore; d’un grande e triplice atto d’amore: verso Dio, verso la Chiesa, verso l’umanità. Bergoglio richiama spesso l’allocuzione pronunciata da Giovanni Battista Montini all’inizio della quarta sessione il 14 settembre 1965. Spiega Francesco: questo rinnovato atteggiamento di amore che ispirava i padri conciliari ha portato anche, tra i suoi molteplici frutti, ad un modo nuovo di guardare alla vocazione e alla missione dei laici nella Chiesa e nel mondo, che secondo Bergoglio ha trovato espressione anzitutto nelle due grandi Costituzioni conciliari Lumen Gentium e Gaudium et Spes. Questi documenti basilari del Concilio considerano i fedeli laici entro una visione d’insieme del Popolo di Dio, a cui essi appartengono assieme ai membri dell’ordine sacro e ai religiosi, e nel quale partecipano, nel modo loro proprio, della funzione sacerdotale, profetica e regale di Cristo stesso.

In ogni ambiente

Il Concilio, a giudizio di Francesco, non guarda ai laici come se fossero membri di “second’ordine”, al servizio della gerarchia e semplici esecutori di ordini dall’alto, ma come discepoli di Cristo che, in forza del loro Battesimo e del loro naturale inserimento “nel mondo”, sono chiamati ad animare ogni ambiente, ogni attività, ogni relazione umana secondo lo spirito del Vangelo, portando la luce, la speranza, la carità ricevuta da Cristo in quei luoghi che, altrimenti, resterebbero estranei all’azione di Dio e abbandonati alla miseria della condizione umana. Nessuno meglio di loro può svolgere il compito essenziale di iscrivere la legge divina nella vita della città terrena.  Al Concilio Karol Wojtyla e Albino Luciani c’erano da padri conciliari, Joseph Ratzinger da giovane perito. Ma cerano tutti e tre. Non così Jorge Mario Bergoglio che addirittura ha ricevuto l’ordinazione sacerdotale nel post Concilio. Se sono celebri il ruolo e il contributo di Wojtyla e Ratzinger nell’elaborazione di documenti conciliari, meno conosciuta è la presenza del futuro Giovanni Paolo I. Eppure l’11 ottobre 1962, alla cerimonia di apertura c’era anche un giovane prelato, consacrato vescovo di Vittorio Veneto dallo stesso Giovanni XXIII quattro anni prima. Era Albino Luciani, e sarebbe stato il primo papa ad aver vissuto da vescovo il Concilio e ad averlo applicato nelle sue diocesi. Bergoglio seguiva il Concilio da Buenos Aires. Nella capitale argentina, infatti, nasce il 17 dicembre 1936, figlio di emigranti piemontesi: suo padre Mario fa il ragioniere, impiegato nelle ferrovie, mentre sua madre, Regina Sivori, si occupa della casa e dell’educazione dei cinque figli. Diplomatosi come tecnico chimico, sceglie poi la strada del sacerdozio entrando nel seminario diocesano. “Bergoglio non era al Concilio eppure il suo maestro è proprio il papa che ha voluto la novità epocale del Vaticano II”, sottolinea il vescovo Mogavero. “Si possono legare le figure di san Giovanni XXIII e di Francesco in quanto è Giovanni che ha indetto il Concilio. Accostare il “Papa buono” con il “Papa misericordioso” consente di comprendere l’attuazione del programma conciliare nella sua prospettiva autenticamente conciliare”. Il Concilio, infatti, è stato messo in pratica più nel Sud America e nelle chiese povere che non qui in Europa. “Basti pensare ad esempio alla liturgia viva, al senso di comunità, al ruolo dei catechisti e dei laici”, sottolinea il presule. “Cose che chi è stato in missione può raccontare, e che chi arriva da lì percepisce immediatamente. L’Europa, ai loro occhi appare come un mondo in cui la fede è morta, il Concilio inattuato”.

Nelle villas miseria

Nell’esperienza di Bergoglio, Galilea dei nostri tempi è la Buenos Aires delle villas miseria, le baraccopoli battute dai curas villeros, i preti di periferia che mentre evangelizzano insieme ai missionari laici fanno geopolitica sociale, non per scelta ideologica ma per necessità pastorale. È questa la periferia che con papa Francesco si è insediata sul trono di Pietro”.  Francesco, secondo la rivista di geopolitica diretta da Lucio Caracciolo, vuole riconvertire la Chiesa alla primigenia vocazione pastorale, riformarne e ammodernarne stili, codici e strutture, non distruggerla. Da cardinale argentino Bergoglio ha sempre affermato l’autonomia reciproca di Stato e Chiesa, su base paritaria, ossia parallela. Quando il defunto presidente argentino Néstor Kirchner, che lo diffamava come “capo dell’opposizione”, gli faceva notare la sua autorità politica, Jorge Mario Bergoglio replicava: “Lei è il presidente. Io sono l’arcivescovo di Buenos Aires”. Non una professione di obbedienza. bergoglio, racconta Avvenire, conserva ancora, su un foglio scolorito dal tempo, la personale professione di fede scritta in un momento di grande intensità spirituale poco prima di essere ordinato sacerdote:”Credo nella mia storia, permeata dallo sguardo benevolo di Dio, che nel primo giorno di primavera, il 21 settembre, mi è venuto incontro e mi ha invitato a seguirlo”.

Senza ferie e senza sosta

È il 13 dicembre 1969, quattro giorni prima del suo trentatreesimo compleanno, quando le mani dell’arcivescovo di Cordoba, Ramon José Castellano, sulla testa di Jorge Mario Bergoglio ungono l’inizio di una storia vissuta di sacerdozio, che ancora continua, “h-24”, senza ferie e senza sosta, da cinquant’anni. Perché papa Francesco, evidenzia Stefania Falasca, è prima di tutto un prete, cioè un padre che ha continuato ad esserlo e a farlo. E di fatto, anche da Papa, a partire dalle messe quotidiane a Santa Marta, come parroco del mondo: “Io faccio il prete, e mi piace”. Dando questa testimonianza, che forse non potrebbe essere meglio sintetizzata che così: “E questo mettetevelo bene in testa e nel cuore: pastori sì, funzionari no! La vita parla più delle parole. La testimonianza contagia. Si possono fare tante discussioni sul rapporto Chiesa-mondo e Vangelo-storia, ma non serve se il Vangelo non passa prima dalla propria vita. E il Vangelo ci chiede, oggi più che mai, questo: servire nella semplicità, nella testimonianza. Ciò significa essere ministri: non svolgere delle funzioni, ma servire lieti, senza dipendere dalle cose che passano e senza legarsi ai poteri del mondo. Così, liberi per testimoniare, si manifesta che la Chiesa è sacramento di salvezza, cioè segno che indica e strumento che offre la salvezza al mondo”.

Uomo di Dio

Francesco lo ha detto il 15 settembre dell’anno scorso a Palermo, davanti alla tomba di don Pino Puglisi, indicando il programma di vita quotidiano che fa l’identità sacerdotale vissuta in prima persona, in persona Christi: “Prendete e mangiate, questo è il mio corpo offerto per voi”, lasciandosi letteralmente “mangiare” dai fratelli, perché “il sacerdote è uomo di Dio 24 ore su 24, non uomo del sacro quando indossa i paramenti”, “uomo del dono e del perdono”, che “coniuga nella vita il verbo celebrare”. E ha spiegato, rivolgendosi ai religiosi, quanto sia “fondamentale pregare Colui di cui parliamo, nutrirci della Parola che predichiamo, adorare il Pane che consacriamo, e farlo ogni giorno: Preghiera, Parola, Pane“, come è stato per padre Pino Puglisi, detto “3P”. E ha ricordato ancora queste tre P essenziali per ciascun prete ogni giorno, essenziali per tutti i consacrati ogni giorno: “Perché la nostra, cari sacerdoti, non è una professione ma una donazione; non un mestiere, che serve per fare carriera, ma una missione, un servizio, secondo il vero potere, il potere secondo Dio”. E, evidenzia il quoridiano della Cei, come continuare a declinare queste tre P di servizio, “richiamando alla memoria una storia di grazia”, appare in fondo l’unico interesse della sua vita di sacerdote. Alle quali si aggiunge la P di padre che affonda proprio sul “richiamare alla memoria, quella di cui si parla nel Deuteronomio, la memoria delle opere di Dio che sono alla base dell’alleanza tra Dio e il suo popolo”.