Non abbiamo imparato nulla

Esattamente 25 anni fa cadeva il muro di Berlino. Lungo 150 km, il Berlin Mauer – questo il nome in tedesco – ha diviso la città teutonica in due per 28 lunghi anni, dal lontano 13 agosto del 1961 fino al 9 novembre 1989, momento in cui il governo tedesco-orientale decretò l’apertura delle frontiere con la repubblica federale. Quel giorno le televisioni trasmisero le immagini di migliaia di cittadini che si abbracciavano, incuranti delle rispettive ideologie politiche ma felici di essere nuovamente riuniti. Fu un evento storico cruciale; non solo per le popolazioni dell’est che fuggivano verso quella libertà che solo la democrazia poteva garantire, ma per l’intero scacchiere internazionale. La caduta del muro, infatti, fu il simbolo della fine della guerra fredda che divideva l’Europa in due pericolosi blocchi contrapposti – quello americano a ovest e quello sovietico a est – e rischiava di gettare l’umanità nel quarto conflitto mondiale. Contro l’orrore della guerra alzò la propria autorevole voce anche Papa Giovanni XXIII – il “Papa buono” – con la sua famosa enciclica “Pacem in terris”.

Nel documento, Papa Roncalli si rivolgeva “a tutti gli uomini di buona volontà” affinché prevalesse il valore della pace sulle logiche del potere e la Chiesa guardasse “ad un mondo senza confini e senza blocchi” così che “tutte le nazioni, tutte le comunità politiche” cercassero “il dialogo, il negoziato” guardando “a ciò che unisce, tralasciando ciò che divide”. Quel giorno di 25 anni fa Berlino diventò simbolo di speranza: la fiducia che il bene di una collettività di individui diversi tra loro potesse prevalere, almeno una volta, sul fanatismo di un’ideologia spersonalizzante e totalitarista. Oggi 8mila palloncini bianchi verranno lasciati volare in cielo dalla capitale tedesca per ricordare l’assurdità di quell’antica divisione, ma anche come monito per il futuro.

Nella realtà però esistono ancora troppi muri. Come a Tijuana, in Messico. Per gli abitanti di El Paso è “el Muro de la Verguenza”, una frontiera protetta da armi e fili ad alta tensione per volere del Congresso americano nel 1994, e rinforzata anche con strutture fisse nel 2005.

Poi c’è la “barriera di separazione israeliana”, una muraglia che Gerusalemme ha costruito in funzione antiterroristica ma che i palestinesi chiamano “muro di separazione razziale”. La costruzione è iniziata nel 2002 ma è nel 2005 che si è deciso per un ampliamento di imponenti dimensioni. Anche nella civilissima Quebec, in Canada, c’è una struttura di cemento lunga 4 chilometri; fu costruita nel 2001 in occasione del Summit of the Americas, e lì è rimasta.

Altre zone del mondo, altri muri. Come quello eretto lungo la frontiera dello Yemen per separare nettamente i confini con l’Arabia Saudita; così come ha fatto l’Iran costruendo nel 2006 una barriera al confine con l’Iraq, lungo la frontiera di Haji Omran, con lo scopo di contrastare le incursioni dei guerriglieri curdi. Anche la Grecia ha delimitato con una decina di chilometri di filo spinato gli accessi all’Evros, il fiume che fa da confine con la Turchia. Ancora in Iraq, va ricordato il muro costruito dagli americani a Baghdad, nel quartiere di Sadr City, che ha separato di fatto la zona sciita dal resto della città.

Fin qui abbiamo ricordato solo alcune divisioni realizzate dopo la caduta del muro di Berlino. Ma tante altre barriere, costruite prima del 1989, sono ancora in piedi, dal Botswana al Marocco, passando per la Corea, che da oltre 60 anni vede diviso in due lo stesso popolo nel famigerato 38° parallelo.

L’auspicio è che l’uomo non permetta più che un’idea possa prevalere sul bene dell’individuo o che qualcuno schiacci la libertà del singolo in nome di Dio, di un partito o, peggio, di un’utopia.

«Irgendwann fällt jede Mauer». Prima o poi ogni muro cade.
Muro di Berlino, 1989. Foto di Frederick Ramm