LA STRAGE DEGLI INNOCENTI

La foto di Aylan, il piccolo profugo siriano di tre anni annegato davanti alla spiaggia di Bodrum, è rimbalzata nelle ultime ore in tutta la sua potenza visiva sui media e sui social, suscitando l’indignazione del web. Un’immagine forte quanto la crudeltà di ciò che si vede, che spinge quasi tutti a parlare di “naufragio dell’umanità”.

In poco tempo quello scatto ha fatto il giro delle coscienze sulle bacheche di Facebook, nei profili twitter e sui blog, conquistando spazio ai post e ai selfie di ogni giorno. “E’ giusto pubblicarla, non si può voltare le spalle alla realtà”, è stato il verdetto del popolo social, che nel tam tam del web ha adottato l’hashtag #Aylan.

Un’immagine simbolo, che “scuote il mondo”, si è detto. Una foto che da una parte serve per svegliare le coscienze di chi parla ma non agisce, di chi si adagia nel comodo “occhio non vede cuore non duole”, e dall’altra fa ritrovare all’informazione – troppo spesso avvitata sul gossip e sul trash – la sua dignità, il suo ruolo fondamentale che è quello di testimoniare e far riflettere.

L’Occidente super-tecnologicizzato si mostra incapace di gestire l’emergenza. Le soluzioni adottate nel tempo hanno provocato – e ancora stanno provocando – disastri. Prima l’indifferenza, poi la solidarietà di facciata (come è capitato lo scorso aprile con la notizia degli oltre 800 migranti morti al largo della Libia), infine muri, poliziotti e filo spinato.

L’unica vera soluzione sarebbe quella di andare in quei Paesi, aiutarli a ristabilire una reale democrazia senza badare a convenienze petrolifere e di affari, creare le condizioni per una vita serena; ma i Paesi occidentali, lesti a muoversi quando in ballo ci sono interessi economici, stavolta stentano. Le diplomazie annaspano, l’Onu prende tempo. E a pagare il conto come sempre sono i più deboli e indifesi, primi tra tutti i bambini.

Quelli che non hanno la forza di tenersi a galla, di resistere alla sabbia del deserto, schiacciati dalla ressa dei treni. Le rotte dei migranti infatti non passano solo per il mare. La stazione di Budapest – ad esempio – è stata ancora una volta, il cuore dello scontro fra la disperazioni dei profughi e il tentativo di gestire l’emergenza da parte delle autorità ungheresi. Dopo due giorni di accessi blindati, lo scalo ferroviario è stato improvvisamente riaperto, e migliaia di migranti lo hanno preso letteralmente d’assalto, nell’illusione di poter partire.

La speranza era di raggiungere l’ovest, la Germania, e di uscire dal Paese. Ma quei treni non li hanno affatto portati oltre confine: erano diretti, al contrario, ai campi di accoglienza per rifugiati. Che oggi i più rifiutano. Quei convogli sono insomma divenuti una specie di trappola, pur essendo stato detto in tutte le lingue – dagli altoparlanti è stato spiegato in arabo e inglese – che non sarebbero state coperte tratte internazionali dai treni in partenza dalla capitale. Ma chi sta scappando, guidato dalla speranza, non può capirlo. O forse, disperatamente, non vuole.