Coronavirus, l’America di Trump affronta la Storia

Ieri il Capo del Servizio sanitario, Jerome Adams, ha paragonato la pandemia a Pearl Harbor o all'11 settembre: 1.200 vittime e 25 mila casi in un giorno

Milleduecento vittime in un giorno. La Johns Hopkins University segna il dato peggiore per gli Stati Uniti dall’inizio della pandemia. Il coronavirus si è preso tutto: le strade americane, i canali televisivi, la quotidianità delle metropoli, spazzando via anche l’ombra di tutto quello che, fin qui, aveva tenuto banco nei dibattiti dell’opinione pubblica. Non c’è più traccia delle primarie dem, gli americani potrebbero addirittura dimenticarsi che, da qui a un anno, potrebbe esserci un nuovo presidente. Ora la sfida è un’altra e si fa più difficile ogni giorno che passa: negli Stati Uniti sono ora 337.072 i casi di persone in lotta contro il Covid-19, 9.633 coloro che non ce l’hanno fatta. Numeri impressionanti, che dimostrano una volta di più come gli States abbiano iniziato a pagare il loro prezzo di un’emergenza che, forse proprio per le caratteristiche ataviche del Paese, sta trovando terreno fertile.

Una pagina di Storia

Se nel mondo avanzano a ritmo sempre più serrato i paragoni con la Seconda guerra mondiale, perlomeno in termini di scenari di vita quotidiana, il capo del Servizio sanitario pubblico degli Stati Uniti, Jerome Adams, ha proposto due significativi raffronti fra quanto si sta vivendo e la storia recente del Paese. Un “Pearl Harbor moment” ha definito l’emergenza coronavirus, devastante come la distruzione della flotta nel dicembre del ’41, ma anche come l’11 settembre, forse la pagina più buia della storia contemporanea degli States. Come a dire che quanto sta accadendo la sua pagina di Storia se la prenderà, ferocemente, come le bombe sganciate dai giapponesi alle Hawaii e come i boeing dirottati da al-Qaeda su Manhattan. Ma, d’altronde, anche un invito agli americani a considerare la gravità della pandemia e a prendere le necessarie contromisure. Proseguire con il lockdown auto-imposto, quindi, mettendo in pratica perlomeno le norme essenziali per scongiurare un contagio a tappeto.

Misure e contrasto

New York continua a essere l’epicentro della tragedia, americana sì, ma di dominio globale. Come lo fu Wuhan un paio di mesi fa, come lo è stata (e in parte continua a esserlo) la Lombardia. La Grande Mela è quasi una città fantasma, il coronavirus si è insinuato ovunque, anche fra coloro che hanno finora continuato a garantire i servizi essenziali, come gli addetti alla metropolitana, fra i quali si contano 22 morti e oltre mille positivi. Negli Usa si è ancora nella parte più dura della salita, con un sistema sanitario che rischia il tracollo per la sovrabbondanza di casi e con l’ausilio dell’esercito (mille unità a New York) che può solo in parte dare sostegno al caos del comparto medico. Del resto, negli Stati Uniti non c’è ancora una stretta severa come in Italia o in Spagna, con i 50 Stati che adottano ognuno le proprie misure, cercando di uniformarsi senza però una vera e propria linea guida. La speranza, secondo l’immunologa della task force anti-Covid, Deborah Birx, è che la curva dei contagi si riduca. Inutile dire che il tutto è subordinato alla rigidità delle misure di contenimento. Non solo, purtroppo, all’azione medica. Men che meno senza ancora una controffensiva vaccinale.