Il Far West in Parlamento

La rivoluzione non è un pranzo di gala” soleva ripetere Mao Zedong. Ma non è necessario andare fino in Cina: è sufficiente gettare un'occhiata al Parlamento italiano per averne conferma senza troppe eccezioni. L'ultimo colpo di scena lo ha regalato ieri in diretta video il deputato Flavio Di Muro che, mentre si stava esaminando un decreto sulle zone terremotate, in calce al suo discorso ha chiesto alla fidanzata Elisa di sposarlo. Anelli o dichiarazioni di matrimonio sono finanche troppo pacati fra i banchi dell'emiciclo. Poco prima, il presidente della Camera dei deputati, Roberto Fico, aveva sospeso la seduta a seguito di una lite scoppiata durante una discussione sul Meccanismo europeo di stabilità. “Spettacolo indecoroso” ha tuonato la deputata del Partito democratico Patrizia Prestipino. La verità è che tali gesti riflettono un linguaggio direttamente legato ai nuovi modi e strumenti di comunicazione. I social negli anni hanno incentivato un nuovo lessico della politica, ma secondo Massimiliano Panarari, professore di comunicazione politica alla Luiss, alcuni elementi si ritrovano anche prima dell'avvento delle piattaforme digitali di condivisione. Gli esiti sono tutti da vedere e non sempre sono forieri di sventura. Com'egli stesso scrive nel saggio Uno non vale Uno, oggi la rappresentanza politica risente direttamente del dissolvimento dei partiti di massa. Come fa, dunque, la politica a mantenere il proprio status e la riconoscibilità sociale? Su In Terris, Panarari ci aiuta a interpretare  i cosiddetti “segni dei tempi”.

Prof. Panarari, alla luce di quello che è successo, il Parlamento di oggi è più umano o meno rispettoso delle Istituzioni?
“Dobbiamo tenere presente che i conflitti accesi in Parlamento non sono una novità. Montecitorio è stato sempre teatro di risse verbali nel corso della storia post-unitaria e all'indomani della nascita della Repubblica. Allora, però, la dialettica aspra avveniva in un contesto di riconoscimento della centralità delle istituzioni e di 'sacralità' del luogo della politica rappresentativa. Oggi c'è una trasformazione notevole, perché il Parlamento diventa un luogo utile come tribuna televisiva e social nella quale mettere in scena delle situazioni comunicative”.

Questo che cosa comporta?
“La dimensione istituzionale sta perdendo di incisività e di rispetto, perché la dimensione istituzionale è fortemente correlata alla democrazia liberal-rappresentativa. La sua crisi si traduce in uno svuotamento delle istituzioni e in una loro trasformazione in luoghi ed occasioni comunicative su cui i leader e le formazioni politiche saltano per cercare di costruire consenso attraverso la popolarità ed azioni ed atti comunicativi mediati dal circuito mediatico”.

Secondo lei, si possono individuare delle date precise di questa trasformazione?
“È difficile, però il processo di crisi della democrazia liberal-rappresentativa comincia a diventare rilevante a partire con l'ingresso dell'Italia in un contesto più moderno. In questo spartiacque, è diventato sempre più rilevante il potere esecutivo, la leaderizzazione dei politici, la cosiddetta 'turbopolitica' come veniva chiamata in epoca craxiana, che ha avuto un megafono nel berlusconismo che è anche fortemente legato a quella 'quasi crisi di sistema' che nel caso italiano ha corrisposto all'era di Tangentopoli e alla fine della 'Repubblica dei partiti' come la chiamava lo storico cattolico Pietro Scoppola”.

Quali sono le caratteristiche della nuova comunicazione politica?
“La centralità della comunicazione è molto più rilevante di prima, sostituendo la crisi delle ideologie e consegnandoci a quello che Colin Crouch ha chiamato lo 'scenario della post-democrazia', vale a dire un contesto di crisi della legittimità dei soggetti politici, di svuotamento delle istituzioni liberal-rappresentative e di minore capacità della stampa nel costruire il contesto della sfera pubblica. Secondo lo studioso britannico, è come se le istituzioni liberal-democratiche fossero in campo ma venissero progressivamente svuotate del loro sforzo e della loro efficacia, perché c'è uno svuotamento di crisi del consenso. Oggi, i leader dei partiti populisti e sovranisti propendono per un modello di 'democrazia illiberale' e in cui alcuni degli elementi fondamentali della democrazia liberal-rappresentativa, a partire dal pluralismo inteso come 'convivenza fra i diversi', è entrato in crisi”.

Nelle consultazioni del governo Conte II è assente lo streaming, che era invece presente nella prima fase dell'esordio del MoVimento 5 Stelle. Lo streaming è, fra le altre cose, legato al mondo dei social network. Come influiscono sulla politica?
“I social incidono tantissimo. La democrazia ideal-rappresentativa è fondata su una certa idea del tempo, nel senso che le decisioni della politica e il processo di rappresentanza hanno bisogno di tempi medi e lunghi per dispiegare la loro efficacia ed arrivare a condizioni di accordo e compromesso. Da un po' di tempo a questa parte, però, la dimensione dell'accordo viene liquidata come 'inciucio' e 'malaffare': in questo contesto, il tempo è una variabile fondamentale che va in conflitto e risonanza con la comunicazione istantanea. Questa istantaneità della comunicazione brucia-tutto del web fa sì che non ci sia quella condizione di tempo indispensabile per produrre effetti e radicare fiducia negli elettori rispetto agli annunci. Questo produce la cosiddetta 'malattia dell'annuncite' e una repentina disillusione quando queste aspettative non vengono mantenute. Un lato aspetto del linguaggio social che influenza fortemente la politica è l'aspetto della cosiddetta 'autenticità', cioè sui social ci si esprime come si è, anche con un linguaggio da 'bar sport' sulla base dell'idea che la disintermediazione e l'essere e il presentarsi per quello che si è sia vincente. Infine, il linguaggio dei social celebra l'idea del rapporto immediato tra il leader politico e il follower, l'elettore. Ma non ci può essere una politica rappresentativa in un contesto di disintermediazione, e questo rende più problematici i meccanismi della democrazia contemporanea”.

Oggi la Lega è il movimento più 'antico' per la sua storia politica rispetto agli altri. Come ha fatto a rinnovarsi?
“Se la consideriamo nella sua continuità, la Lega rappresenta certamente il partito più antico, ma va fatta un'opportuna differenza fra la Lega di Bossi e la Lega di Salvini. Nel primo caso, è un partito macro-regionalista, il secondo è un partito di destra nazional-populista. A dispetto di una continuità dal punto di vista organizzativo, c'è però un cambiamento totale del gruppo dirigente. L'esperienza di 'Noi con Salvini', per esempio, ha sancito il passaggio da un partito macro-regionale a uno nazionale. Oggi non abbiamo più un partitismo legato a certi settori imprenditoriali, ma la Lega intercetta le fasce più popolari che esprimono malcontento. Il cambio di fase è legato alle capacità comunicative di Matteo Salvini, agli apparati comunicativi che lo affiancano – la famosa bestia – e una dimensione liberistica da 'uomo forte' che in un momento di crisi riveste una propensione accentuata. Questo mutamento ha consentito a Salvini di incarnare lo spirito del tempo”.

Secondo lei, invece, il MoVimento 5 Stelle, che incarnava un'idea di 'cambiamento', si è invecchiato con le recenti esperienze di governo?
“Il MoVimento 5 Stelle è un patchwork dal punto di vista ideologico, che si è definito oltre la destra e oltre la sinistra, trovandosi molto più a suo agio al fianco della Lega, meno nell'attuale governo. In un contesto di forte astensionismo delle giovani generazioni, ha intercettato una parte rilevante del movimento giovanile per la propria carica anti-sistemica. Da un punto di vista simbolico e narrativo, un partito di lotta e di governo funziona in presenza di una leadership molto forte, ma non è possibile da un punto di vista della razionalità politica. Il MoVimento 5 Stelle ha avuto un solo leader, che era – grande paradosso – esterno al MoVimento, cioè la figura ambivalente di Beppe Grillo, nel momento in cui si è chiamato fuori a corrente alternata, questa dimensione è divenuta difficile da reggere in termini convincenti per l'elettorato. La mia sensazione è che il MoVimento 5 Stelle confermi una natura intermittente: i risultati elettorali dimostrano che il suo ciclo vitale si è esaurito e il suo successo presso le giovani generazioni che pagano salato il conto del neoliberismo, del precariato e dei deficit culturali non è più convincente per cui oggi assistiamo a un vero divorzio tra MoVimento 5 Stelle”.

Secondo lei, statisti come De Gasperi o Togliatti avrebbero usato i social alla stessa maniera dei politici di oggi?
“I politici si confrontano sempre con le tecnologie comunicative della loro epoca. Esisteva una dimensione di 'militanza' e la politica allora era un 'facilitatore' della vita delle persone. Col tempo, diversi livelli politici di potere si sono delocalizzati a livello internazionale, per esempio, o economico. Un De Gasperi o Togliatti non possono esserci oggi, perché erano di un tempo in cui c'era il primato della Politica. In questa nostra epoca, invece, accanto all'indebolimento del potere politico, c'è una grossa pervasività delle tecnologie. Per certi versi, è un po' la rivincita di Marshall McLuhan e della Scuola di Toronto, nel senso che la scuola del determinismo tecnologico ci dice che alcune intuizioni di ieri si sono prodotte oggi, cioè oggi le forme del pensiero sono anche debitrici delle piattaforme tecnologiche che hanno un ruolo significativo nel ri-orientare i nostri modi di pensare, le nostre mentalità.

Oggi è diffuso un sentimento di popolare affezione verso il presidente della Repubblica Sergio Mattarella e Liliana Segre, per esempio, che sono due icone rappresentative di una certa 'discrezione' della comunicazione politica. Secondo lei, questo stesso sentimento si concilia davanti a dichiarazioni di matrimonio o a bagarre parlamentari?
“Il presidente della Repubblica è il custode della Costituzione e, come tale, dovrebbe essere considerata super partes. La senatrice Liliana Segre è, anche solo per la sua funzione testimoniale, dovrebbe essere rispettata. Purtroppo così non è perché questo Paese ha vissuto forme di 'egemonia sottoculturale' e di 'imbarbarimento progressivo' come l'ho definito nel libro L'egemonia sottoculturale. Queste due figure dovrebbero essere considerate un modello e rappresentano l'antitesi di quello che è avvenuto in Parlamento oggi e di un'idea della politica come gestualità pura ed estetizzante, che si radica nell'interpretazione della politica dannunziana e futurista, che voleva essere parimenti shockante per ridurre gli spazi di libertà. Quando i politici esprimono fedeltà nei confronti della Costituzione, dovrebbero stare lontanissimi dalla dimensione della bagarre, della violenza che hanno l'effetto di 'avvelenare' il clima istituzionale. E se le istituzioni cessano di essere la cornice generale all'interno della quale si riconoscono tutti i cittadini elettori, tutto questo finisce per allontare settori ancora più rilevanti della cittadinanza dalla politica con il risultato che anche la politica ne pagherà conseguenze durissime”.