Congo e Sud Sudan: cosa c’è dietro venti anni di conflitto, crisi politica e umanitaria

L'intervista di Interris.it alla ricercatrice del Programma Africa dell'Ispi, Lucia Ragazzi

La Repubblica Democratica del Congo e il Sud Sudan sono tornati al centro dell’attenzione mediatica grazie al viaggio apostolico di Papa Francesco. I due Paesi africani vivono da oltre vent’anni una crisi umanitaria, una permanente crisi politica e una grave diffusione della violenza. Situazione che rende difficile la loro stabilità e che costringe la popolazione a vivere in un clima di costante incertezza. Conflitti dimenticati, anche dai media, di quella “terza guerra mondiale a pezzi” tante volte denunciata da Papa Francesco.

L’intervista

Ma cosa ha originato questi conflitti? Perché dei Paesi così ricchi di risorse nel sottosuolo non riescono a fronteggiare la povertà estrema che attanaglia la popolazione? Interris.it ha intervistato Lucia Ragazzi, ricercatrice del Programma Africa dell’Ispi.

Dottoressa, il Sud Sudan vive dal 2013 nell’incertezza del futuro. Quali sono le principali problematiche di questo Paese?

“Il Sud Sudan è lo Stato più giovane dell’Africa, nato nel 2011 dalla separazione dal Sudan. L’importante processo di costruzione del nuovo Paese è stato interrotto dallo scoppio della guerra civile già dal 2013. Tutto ciò nasce dalla disputa tra le due persone politiche principali, il presidente Salva Kiir Mayardit e il suo vice Riek Machar del partito di governo Slpm (Sudan People’s Liberation Movement). La conflittualità fra questi due big man riflettono più ampie linee di conflittualità su linee etniche andando a coinvolgere l’esercito e le milizie che sostengono l’uno o l’altro. Le varie iniziative o accordi che si sono susseguiti nel corso degli anni sono valsi a poco, costituendo alcune false partenze, fino ad arrivare ad un accordo politico che si è raggiunto nel 2018. E’ chiaro, però, che la dinamica politica e l’evoluzione conflittuale hanno spezzato quei piccoli segnali di crescita economica e riconciliazione di una società segnata da decenni di violenze: prima dell’indipendenza questi territori erano coinvolti in una dolorosa guerra civile che ha poi portato alla secessione. In questo scenario, l’instabilità politica rimane un problema cruciale, tanto che le stesse elezioni sono state rimandate più volte e si dovranno tenere nel 2024. Il Paese rimane segnato da un’alta conflittualità per le risorse, per i servizi di base, con conflitti intercomunitari, una situazione di violenza generalizzata. Secondo le Nazioni Unite ci sono più di due milioni di sfollati interni. La situazione economica è seria: oltre al settore petrolifero la produttività è bassa, così come gli indicatori di sviluppo, mentre sono alte le spese militari e gli indicatori di corruzione sono ben presenti”.

Il sottosuolo sud sudanese è estremamente ricco di risorse ma la popolazione vive una povertà estrema: a cosa è dovuto questo?

“E’ dovuto a moltissimi fattori. C’è una contraddizione di base che si verifica spesso nei Paesi esportatori di petrolio. Nonostante la vendita del petrolio porti molti introiti allo Stato, questo non si riflette in una pari ricchezza per la popolazione. Il Sud Sudan è molto ricco di petrolio, le sue riserve sono le terze nell’africa subsahariana. Una grande ricchezza per il governo, ma allo stesso tempo, il settore petrolifero è anche fonte di conflittualità, corruzione e mancanza di trasparenza. L’economia del Paese è poco diversificata: il budget statale dipende dall’estrazione del petrolio per più del 90% e questo lo rende molto vulnerabile alle variazioni del prezzo del petrolio, senza considerare che la capacità estrattiva può essere molto ridotta nel momento in cui scoppia un conflitto. Questo crea un circolo vizioso di povertà. Sempre a livello interno, ci sono altri fattori che influiscono: il Sud Sudan è molto esposto agli shock climatici, per quattro anni di fila si sono verificate alluvioni particolarmente forti che hanno colpito diverse aree del paese. Ci sono state anche gravi invasioni di locuste. Tutto questo ha abbassato la produzione agricola che dà lavoro all’80% della popolazione. Per il 2023, le Nazioni Unite hanno stimato che i due terzi delle persone che vivono in Sud Sudan avranno bisogno di sostegno”.

Nel febbraio del 2020 l’alleanza dei movimenti di opposizione del Sud Sudan (SSOMA) e il R-TGoNU (Revitalized Transitional Government of National Unity) hanno raggiunto un importante accordo per avviare una politica di dialogo. Ci sono stati dei risultati apprezzabili?

“La politica del Paese è contrassegnata da molte false partenze, battute di arresto, passi in avanti a singhiozzo. Dal 2013 quando è iniziata la guerra civile, c’è stata una serie infruttuosa di accordi. Dal 2018 si è arrivati alla firma di un importante accordo tra Kiir e Machar che prevedeva la spartizione del potere e la definizione del controllo degli stati amministrativi in cui è diviso il Paese. Per poi arrivare al 2020 quando Kiir e Machar hanno raggiunto un ulteriore accordo sulla nomina dei governatori dei dieci stati in cui è diviso il Paese. Però anche in questi casi si sono verificate delle falle, dovute al mancato coinvolgimento di alcune fazioni. Insomma, ci sono stati dei progressi, ma la sfiducia fra i leader dei vari schieramenti rimane un elemento determinante”.

Nella Repubblica Democratica del Congo è in atto un conflitto che dura da oltre 25 anni. Quali le cause?

“La conflittualità e l’instabilità nella Repubblica Democratica del Congo interessa tristemente la zona nord orientale del Paese, dove si trova la capitale del Nord Kivu, Goma, vicino al confine con il Ruanda, ed è in questa zona dove si è verificata la drammatica scomparsa dell’ambasciatore Luca Attanasio, del carabiniere della scorta Vittorio Iacovacci e dell’autista Mustapha Milambo. Una zona segnata dall’alto tasso di violenza, dove si sarebbe dovuto recare anche Papa Francesco nel corso del suo viaggio apostolico nel Paese, tappa poi eliminata per motivi di sicurezza. In questa zona, vicina al confine con il Ruanda, Uganda e Burundi, ci sono stati molti episodi di violenza. Le ragioni sono complesse, legati a vari gruppi armati, in una zona che è molto ricca di diamanti, coltan, cobalto e altri minerali. E’ un panorama molto complesso, fatto di scontri fra i vari gruppi armati e con l’esercito congolese. A partire del 2021, in particolare, si è assistito al ritorno del movimento congolese M23, dormiente dal 2013, che ha espanso la sua attività nel Nord Kivu, scontrandosi con altri gruppi armati e l’esercito congolese. La situazione è deteriorata rapidamente, tanto da far mobilitare una forza di pacificazione dell’organizzazione regionale East African Community, sotto guida keniota. A livello internazionale, poi l’aumento della tensione ha contribuito all’inasprimento dei rapporti fra Congo e Ruanda. Si tratta insomma di uno scenario molto complesso e stratificato”.

Secondo un report pubblicato dal Congo Research Group, sono circa 120 i gruppi armati ancora attivi nell’est del Paese. Il governo del Congo come può intervenire per porre fine a questa problematica?

“E’ una zona a limitato controllo statale che offre, quindi, terreno fertile a questi gruppi armati. Questo scenario si prolunga da decenni, nonostante il dispiegamento di una missione delle Nazioni Unite. Dal punto di vista del governo congolese, questo rimane un dossier aperto e riportare la pace nell’est del Paese è stata una delle priorità espresse dal presidente in carica Felix Tshisekedi. Questa è una missione molto complicata ma molto sentita nel Paese. C’è molta pressione nel voler portare risultati concreti anche in vista delle elezioni previste per dicembre 2023”.

L’Europa e la comunità internazionale quale ruolo possono svolgere nel processo di pacificazione di questi due Paesi? 

“Si tratta di crisi molto complicate, stratificate, e anche diverse tra loro. E’ cruciale il ruolo proattivo dei Paesi della regione, così come l’attenzione delle Nazioni Unite e della comunità internazionale. Le popolazioni locali sono comprensibilmente frustrate perché nonostante i vari tentativi, la violenza rimane una costante quotidiana. L’attenzione deve rimanere alta sia sulle vie negoziali sia sul sostegno umanitario: nel corso del 2022, si è visto che, complice l’effetto della guerra in Ucraina sull’aumento dei prezzi, il budget degli aiuti umanitari in Africa si è ridotto. E’ importante mantenere accesi i riflettori su questi scenari che, a volte, vengono dimenticati”.