“Questo è il pane disceso dal cielo, chi mangia questo pane vivrà in eterno”

«Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue rimane in me e io in lui»
«Qui mandūcat meam carnem et bibit meum sanguĭnem, in me manet, et ego in illo»

Terza Settimana di Pasqua – Gv 6,52-59

In quel tempo, i Giudei si misero a discutere aspramente fra loro: «Come può costui darci la sua carne da mangiare?». Gesù disse loro: «In verità, in verità io vi dico: se non mangiate la carne del Figlio dell’uomo e non bevete il suo sangue, non avete in voi la vita. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna e io lo risusciterò nell’ultimo giorno. Perché la mia carne è vero cibo e il mio sangue vera bevanda. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue rimane in me e io in lui. Come il Padre, che ha la vita, ha mandato me e io vivo per il Padre, così anche colui che mangia me vivrà per me. Questo è il pane disceso dal cielo; non è come quello che mangiarono i padri e morirono. Chi mangia questo pane vivrà in eterno». Gesù disse queste cose, insegnando nella sinagoga a Cafàrnao.

Il commento di Massimiliano Zupi

Nella pericope di oggi Gesù insiste moltissimo su questa immagine tanto cruda: mangiare la sua carne (ripetuto cinque volte) e bere il suo sangue (ripetuto quattro volte). Cosa vuol dire? Che Dio non ci salva standosene lassù nel cielo né semplicemente parlandoci. No, ma si fa carne, assume un corpo: e quella carne arriva a lasciarla trafiggere e masticare da coloro che non l’hanno accolto (Gv 1,11). Secondo la massima di Tertulliano, «caro salūtis cardo»: la carne di Cristo è il cardine della salvezza; la salvezza viene solo attraverso e grazie al farsi carne della Parola: e l’incarnazione si compie sulla croce, quando cioè la carne si fa dono e si dà da mangiare. La carne si può toccare e ci può toccare, ma mai violare, se non attraverso l’omicidio: è luogo e condizione di possibilità di ogni contatto reale ed autentico. La comunione vera non è quella dei cuori e delle anime: comunione che rischia di essere sempre molto ideale e perciò egoistica, nella quale incontrando l’altro in fondo si incontra solo sé stessi; nella quale cioè si incontra l’altro solamente nella misura in cui coincida con me, sia un altro me, un alter ego, pena il venir meno di quell’intesa magica (non è questo lo scotto che ogni innamoramento prima o poi deve pagare?). La comunione vera, quella comunione che è amore e non solo innamoramento, è soltanto nella carne: nel contatto dei corpi, nel servire il corpo dell’altro, fino a farsi, con il proprio corpo, carne, cibo, pane per l’altro. Allora ciascuno dimora nell’intimo dell’altro: uomo nascosto del cuore (1 Pt 3,4), presenza discreta, che serve e si prende cura dell’amato. Amore è il mistero di questa unione con l’altro che rispetta e potenzia la differenza dell’altro: i due saranno una sola carne (Gn 2,24) rimanendo due, anzi generando un terzo, vivendo l’uno per l’altro, toccando e servendo ciascuno con la propria carne la carne dell’altro.