“Il Padre mi ama: perché io do la mia vita, per poi riprenderla di nuovo”

«Ascolteranno la mia voce e diventeranno un solo gregge, un solo pastore»
«Et vocem meam audĭent et fient unus grex, unus pastor»

Quarta Settimana di Pasqua – Gv 10,11-18

In quel tempo, Gesù disse: «Io sono il buon pastore. Il buon pastore dà la propria vita per le pecore. Il mercenario − che non è pastore e al quale le pecore non appartengono – vede venire il lupo, abbandona le pecore e fugge, e il lupo le rapisce e le disperde; perché è un mercenario e non gli importa delle pecore. Io sono il buon pastore, conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me, così come il Padre conosce me e io conosco il Padre, e do la mia vita per le pecore. E ho altre pecore che non provengono da questo recinto: anche quelle io devo guidare. Ascolteranno la mia voce e diventeranno un solo gregge, un solo pastore. Per questo il Padre mi ama: perché io do la mia vita, per poi riprenderla di nuovo. Nessuno me la toglie: io la do da me stesso. Ho il potere di darla e il potere di riprenderla di nuovo. Questo è il comando che ho ricevuto dal Padre mio».

Il commento di Massimialiano Zupi

In soli otto versetti, per ben cinque volte ritorna l’espressione «dò/dà/dare la propria vita». Per questo Gesù è pastore: perché dà la propria vita per le pecore. La cosa però non è così ovvia: il pastore, infatti, non è colui che si sacrifica per il gregge, bensì colui che lo porta al pascolo (Sal 23/22,2). In effetti, all’inizio del suo discorso, Gesù aveva identificato in questo modo il suo ruolo di pastore: «Egli chiama le sue pecore, ciascuna per nome, e le conduce fuori» (v.3). Il Signore è pastore perché libera la nostra vita: ci fa uscire dalle gabbie in cui siamo rinchiusi, ci fa respirare a pieni polmoni, ci dà zoccoli per correre e bocca per mangiare, e ci insegna a gioire di tutto questo. L’esistenza è una fuga dall’Egitto, una Pasqua permanente: come Mosè, Gesù è pastore in quanto liberatore, guida nel nostro esodo. Ma, concretamente, come può esserlo? Parlando; ancora più precisamente: chiamando ogni pecora per nome (v.3).  Il Vangelo, per ogni lettore, realizza quest’opera di vocazione: le parole evangeliche diventano infatti parole interiori. «Io sono il buon pastore» (v.11), esordisce Gesù: «Io sono: sono io! Non mi riconosci?». «Le mie pecore conoscono me» (v14), ovvero «conoscono la sua voce» (v.4): non si tratta anzitutto di comprendere il significato delle parole, la dottrina che esse veicolerebbero, bensì il suono della voce di Colui che le pronuncia. «Una voce! L’amato mio!» (Ct 2,8): le parole del Vangelo sono voce, presenza di chi da sempre abita nel nostro cuore. Parlando, egli  si dà: esce da sé stesso, perde sé stesso, per entrare dentro di noi, per ritrovarsi in noi. Come le sue parole hanno potuto acquistare un simile potere? Solo perché egli ha dato la sua vita: si è inginocchiato ai nostri piedi (Gv 13,5), ci ha servito (Mc 10,45), fino a morire per noi. Se l’amore è servizio concreto (Mc 1,31), opere (1 Gv 3,18), allora le parole non sono più menzognere, moneta falsa, promessa non mantenuta; al contrario, acquisiscono il potere di compiere un autentico miracolo: trasformarsi in presenza reale nella carne di chi ascolta, creare comunione. «Ascolteranno la mia voce e diventeranno un solo gregge, un solo pastore» (v.16): «Perché siano una cosa sola come noi siamo una sola cosa. Io in loro e tu in me» (Gv 17,22-23).