Cosa significa pregare?

Il Vangelo del giorno con il commento di Massimiliano Zupi

Livatino

“Padre nostro che sei nei cieli”. “Pater noster, qui es in caelis”. 

Prima Settimana di Quaresima – Martedì – Mt 6, 7-15

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: “Pregando, non sprecate parole come i pagani: essi credono di venire ascoltati a forza di parole. Non siate dunque come loro, perché il Padre vostro sa di quali cose avete bisogno prima ancora che gliele chiediate. Voi dunque pregate così:

Padre nostro che sei nei cieli, sia santificato il tuo nome, venga il tuo regno, sia fatta la tua volontà, come in cielo così in terra. Dacci oggi il nostro pane quotidiano, e rimetti a noi i nostri debiti come anche noi li rimettiamo ai nostri debitori, e non abbandonarci alla tentazione, ma liberaci dal male.

Se voi infatti perdonerete agli altri le loro colpe, il Padre vostro che è nei cieli perdonerà anche a voi; ma se voi non perdonerete agli altri, neppure il Padre vostro perdonerà le vostre colpe”.

Il commento di Massimiliano Zupi

Cosa significa pregare? Qui Gesù risponde consegnandoci l’oratĭo dominĭca, l’orazione del Signore. La preghiera dunque consiste nella ripetizione di formule stereotipate? Certamente, è anche questo; tuttavia per lo più, quando i Vangeli ci mostrano Gesù in preghiera, non viene specificato quali parole usasse: si dice piuttosto che si ritirava in un luogo appartato, preferibilmente di notte, a pregare (per esempio, Mt 14,23 e Mc 1,35). Ecco, pregare è entrare nella stanza, chiudere la porta e là, nel segreto, rivolgersi a Dio (Mt 6,6): preghiera è essenzialmente relazione. Per questo ogni orazione comincia con un vocativo: è allocuzione, un chiamare, un alzare gli occhi (Gv 17,1), un bussare (Lc 11,8; 18,3).

“Padre nostro che sei nei cieli”. Il primo moto della preghiera è uscire fuori di sé, verso l’alto, verso l’Altro, verso i cieli. Movimento di per sé già tanto terapeutico: significa infatti entrare nel respiro ampio di Dio, che ci libera dal fiato corto, dal ripiegamento su noi stessi, dal nostro orizzonte sempre troppo ristretto. “Padre”: il secondo moto, suscitato dal primo, è verso l’intimo, là dove nasce l’invocazione primordiale, “Abbà!” (Gal 4,6; Rm 8,15). Guardando a Dio trascendente, paradossalmente, entriamo in contatto con noi stessi. Fenomenologicamente, è quel che è possibile constatare negli infanti: essi cominciano a scoprire la propria identità proprio quando iniziano a pronunciare le prime parole, “mamma!”, “papà!”; viceversa, nella misura in cui quei loro appelli rimangano disattesi, non corrisposti, trascurati, con ogni probabilità vi sarà una ricaduta sulla costituzione del loro io, sulla percezione di sé. Uscendo fuori di sé, entriamo in noi stessi; guardando verso l’alto, vediamo in noi stessi; protendendoci verso l’altro, veniamo in contatto con noi stessi: perché noi siamo relazione d’amore, e nulla di più. Invocando il suo nome, scopriamo il nostro nome: figli del Padre.

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