“Chiunque si esalta sarà umiliato, chi invece si umilia sarà esaltato”

«O Dio, ti ringrazio»
«Deus, gratĭas ago»

Terza Settimana di Quaresima – Sabato – Lc 18,9-14

In quel tempo, Gesù disse ancora questa parabola per alcuni che avevano l’intima presunzione di essere giusti e disprezzavano gli altri: «Due uomini salirono al tempio a pregare: uno era fariseo e l’altro pubblicano.  Il fariseo, stando in piedi, pregava così tra sé: “O Dio, ti ringrazio perché non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adùlteri, e neppure come questo pubblicano. Digiuno due volte alla settimana e pago le decime di tutto quello che possiedo”. Il pubblicano invece, fermatosi a distanza, non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo, ma si batteva il petto dicendo: “O Dio, abbi pietà di me peccatore”. Io vi dico: questi, a differenza dell’altro, tornò a casa sua giustificato, perché chiunque si esalta sarà umiliato, chi invece si umilia sarà esaltato».

Il commento di Massimiliano Zupi

Il fariseo ed il pubblicano salgono al tempio a pregare: azione eminentemente umana. In effetti, unico tra gli animali, l’uomo prega, ovvero parla rivolgendosi a Dio: entra in relazione con lui, abbandona i propri orizzonti, sempre troppo angusti, ed inspira il respiro ampio di Dio. Per essere sé stesso, l’uomo deve pregare: trascendersi e ritrovarsi al di là di sé, in Dio. Ora, però, la preghiera del fariseo non è gradita a Gesù. Strano! Il fariseo infatti è uno specialista della preghiera, sa come va fatta: stando ritto in piedi e lodando il Signore. Cosa sbaglia allora? Il fatto è che egli ringrazia, sì, ma non Dio, bensì sé stesso: di essere pio, osservante, puro, non come gli altri uomini. Egli sta in piedi, ma il suo sguardo non è rivolto verso il cielo, a Dio: è piuttosto ripiegato su di sé. Né tanto meno è rivolto verso i suoi fratelli, per pregare per loro: al contrario, li disprezza e li condanna, considerandosi superiore a tutti. Lo spirito con cui prega è esattamente opposto allo Spirito di Dio che prega in noi (Rm 8,26): non esprime amore né per Dio né per il prossimo, ma solo orgoglio e superbia.

Il pubblicano invece si limita a ripetere: «Abbi pietà di me peccatore». Anche la sua propriamente non è ancora preghiera: non alza nemmeno gli occhi al cielo. È tuttavia la base, il fondamento, la condizione di possibilità della preghiera: è lo svuotamento di sé, quella kénosis che consente poi di rivolgersi a Dio e al prossimo. L’umiltà, il sentimento di minorità, il considerarsi peccatori ed inferiori agli altri (1 Tm 1,15; Fil 2,3), senza nessun merito né titolo di fronte a Dio, è il vuoto, lo spazio di accoglienza che permette di ricevere lo Spirito Santo, l’ospite dolce dell’anima, ed i fratelli. Da questo nuovo punto di partenza, è possibile allora ripercorrere la pericope evangelica e portarla a compimento. Il fariseo sta ritto in piedi, ma questa volta, vuoto di sé, con lo sguardo ed il cuore realmente rivolti a Dio. La sua preghiera è di ringraziamento, non per i propri meriti però, bensì per i doni di Dio. Il primo polmone della preghiera, in effetti, è ringraziare Dio: di tutto, continuamente. Subito dopo il rendimento di grazie, la sua preghiera si volge quindi ai fratelli; non tuttavia per condannarli, bensì per benedirli e pregare per loro: l’intercessione è il secondo polmone della preghiera. Infine anche il pubblicano può compiere la sua preghiera: questa volta alzando gli occhi al cielo e trasformando il suo atto di dolore in offerta di sé, del suo corpo e delle sue energie, a Dio. Come scrisse Charles de Foucauld, «Padre mio, io mi abbandono a te, fa’ di me ciò che ti piace»: allora è possibile pregare incessantemente, perché tutta intera la propria vita diventa preghiera.