Conte II, 100 giorni tra crisi e rilancio

Per il governo Conte II il panettone di questo Natale 2019 sembra davvero essere a portata di mano. Ma alla ripresa dei lavori, dopo i giorni di festa, l’esecutivo tornerà a navigare in acque agitate con dietro l’angolo il rischio dell’ammutinamento. Approvata con voto di fiducia al Senato la legge di bilancio definita dai suoi fautori “Salva Italia” e dai suoi detrattori – anche interni alla compagine governativa – una manovra delle tasse, che ora dovrà passare al vaglio della Camera dei deputati seppur con il testo blindato: sono presenti sul tavolo diversi nodi molto intrecciati che non sembrano facili da sciogliere. Nodi di riforme e di tattica politica. Nel tentativo di farsi trovare pronto quando ci si troverà di nuovo faccia a faccia nel 2020, il presidente del Consiglio Giuseppe Conte ha già detto che a gennaio servirà rilanciare l’attività di governo, per durare fino al 2023. Lo scopo, stilare un nuovo accordo basato su un programma di riforme condiviso dalle quattro componenti della maggioranza. Quello che in un’intervista al Corriere della Sera ha chiamato “Agenda 2023”. Il segretario del Partito democratico Nicola Zingaretti ha subito appoggiato l’iniziativa del premier: “Bene ha fatto a rilanciare questa sfida per costruire un’agenda 2020”. Agenda, non più “contratto”. Parola, quest’ultima, usata dal capo politico del Movimento 5 Stelle Luigi Di Maio giusto poche settimane fa proprio in merito alla necessità, per i membri del governo, di sedersi intorno a un tavolo e decidere su quali provvedimenti lavorare. Un cambiamento di lessico utile forse a marcare una distanza dal tipo di legame che unisce le quattro forze della maggioranza “giallorossa” – Pd, M5s, Italia Viva e Liberi e Uguali – rispetto a quello che ha caratterizzato il governo “gialloverde”, formato dai pentastellati e dalla Lega di Matteo Salvini. Ma oltre le evoluzioni lessicali, le criticità a breve, medio e lungo termine restano sotto gli occhi di tutti. Le polemiche e i distinguo tra quelli che dovrebbero essere alleati, il dibattito su una nuova legge sulla cittadinanza, le crisi che il Paese si porta dietro da un decennio come l’ex Ilva di Taranto e la compagnia di bandiera Alitalia, la nuova legge sulla prescrizione che scatterà dall’1 gennaio 2020. Il tutto in un contesto di crescita stagnante e con un elevato tasso di disoccupazione. Oltre a questo, ci sono anche le questioni politiche che agitano i partiti. Un bilancio di questi primi 100 giorni di governo Conte II.

Manovra con fiducia

Sono stati approvati a Palazzo Madama con lo stesso numero di voti a favore la legge di stabilità per il 2020 e il decreto fiscale, la prima lunedì 16 dicembre e il secondo – in maniera definitiva –  martedì 17. I “sì” sono stati 166 in entrambi i casi. Nel corso dei due mesi in cui si è lavorato ai testi dopo il varo in Consiglio dei ministri lo scorso ottobre, non sono mancati gli scontri sia tra maggioranza e opposizione sia all’interno della compagine di governo. Infatti il senatore grillino Gianluigi Paragone, che non ha mai nascosto il suo dissenso per l’accordo con il Pd, ha votato contro la manovra presentata dall’esecutivo di cui fa parte. Per evitare trappole e pericoli che avrebbero portato a un allungamento dei tempi per l’approvazione, e aprendo con molta probabilità le porte al regime di esercizio provvisorio, sulla manovra è stato messo il voto di fiducia. E’ stato così possibile dare il primo via libera al testo, che adesso passerà in seconda lettura a Montecitorio, composta da una novantina di articoli e circa 900 commi. Alcune delle misure su cui si era battagliato in autunno, come le tasse “virtuose” e l’inasprimento delle pene per gli evasori, sostenute sia democratici che dai pentastellati, avevano fatto salire sulle barricate Matteo Renzi e gli esponenti del suo neonato partito, Italia Viva. Le accuse rivolte agli alleati erano quelle di voler aumentare le tasse, con l’introduzione di una plastic e di una sugar tax, e di seguire una deriva giustizialista inopportuna. Alla fine, nella legge finanziaria da quasi 32 miliardi, di cui 23,1 necessari per disinnescare le clausole di salvaguardia, 3 per il taglio del cuneo fiscale e l’abolizione del Superticket dall'1 settembre prossimo, sono presenti sia la tassa su larga parte dei prodotti in plastica monouso e quella sulle bibite zuccherate. Ma fortemente depotenziate, tanto che complessivamente si sfioreranno appena i 200 milioni di gettito. La plastic tax, che si stimava avrebbe portato entrate per un miliardo nel 2020, è stata prorogata all’1 luglio prossimo ed stata dimezzata da 1 euro per ogni chilo di plastica a 45 centesimi, con una previsione di gettito di 140,6 milioni il primo anno. Il primo versamento per la sugar tax, con un valore di 10 centesimi al litro e 25 centesimi al chilo, è slittato ad ottobre e la misura porterà nelle casse dello Stato meno di sessanta milioni, circa un quarto delle stime iniziali (233 milioni). Nella conversione del decreto fiscale collegato alla manovra sopravvive il “carcere duro” per chi froda il fisco, con l’aumento delle pene fino a 8 anni per falsa fatturazione, mentre sono state ammorbidite quelle per omessa dichiarazione e dichiarazione infedele.

Le crisi

I governi passano, ma non i grandi punti interrogativi sul destino dell’ex Ilva di Taranto – ora ArcelorMittal, il gruppo franco-indiano che ha in affitto l’impianto siderurgico pugliese – e della compagnia di bandiera Alitalia. Il destino delle acciaierie tarantine, che dividono la città tra chi le vorrebbe chiudere perché possibile causa di elevati tassi di mortalità e malattie e chi si oppone in quanto opportunità di lavoro,  per ora è in mano al tribunale di Milano, dove il 20 dicembre si tiene la prima udienza in merito alla rescissione del contratto intentata dalla multinazionale dell’acciaio. Una vera condanna a morte per Taranto e gli oltre 10mila lavoratori di ArcelorMittal. Casus belli è stata l’eliminazione, il 31 ottobre, dello scudo penale previsto per i manager dell’azienda nella realizzazione del Piano ambientale, provvedimento introdotto dal governo Renzi nel 2015, votata da tutti i partiti della maggioranza. Probabilmente non c’è un’unica causa ma una serie di motivazioni come la crisi del mercato siderurgico – che rende meno redditizio l’investimento nell’ex Ilva –, le perdite giornaliere milionarie dell’azienda, le indagini in corso per la morte di un operaio quattro anni fa e lo spegnimento di un altoforno per la messa in sicurezza. Quale sia l’origine dietro la decisione di ArcelorMittal, il governo vuole provare a salvare l’acciaieria e i suoi posti di lavoro per cui ha avviato una trattativa con l’azienda. Per farlo ha dovuto sopportare il violento scossone interno di quella fronda di parlamentari del Movimento, guidata dall’ex ministro per il Sud nel Conte I Barbara Lezzi, che vuole la chiusura definitiva degli impianti. La multinazionale pone come condizioni per restare il taglio della metà dei dipendenti e la chiusura dell’area a caldo, entrambi irricevibili per l’esecutivo. Il governo invece chiede un numero molto più ridotto di esuberi, circa 1.800, e l’ingresso di Cassa Depositi e Prestiti e di alcune banche. Riguardo ad Alitalia, in amministrazione straordinaria da oltre due anni, il nuovo accordo per la compagnia non riesce a decollare. Le proroghe, salite a otto, si sono susseguite fino a oggi, mentre si è andato assottigliando il prestito ponte da 900 milioni del Ministero dello Sviluppo economico, a cui potrebbero aggiungersi ulteriori 400 milioni. Martedì 18 dicembre si è insediato il nuovo commissario, Giuseppe Leogrande, che dovrà tenere in piedi Alitalia – con una flotta da 110 aerei e oltre 11mila dipendenti – almeno fino a 31 maggio 2020, data entro la quale dovrebbe essere ceduta. Sembrava fosse fatta in autunno con un cordata formata da Ferrovie dello Stato, Atlantia, Ministero dell’Economia e della finanze e dall’americana Delta. Persi per strada sia Fs-Atlantia sia gli statunitensi, che poi sono tornati a farsi vivi, si sono dimostrate interessate anche la tedesca Lufthansa e una vecchia conoscenza di Alitalia, ovvero AirFrance, che aveva detenuto il 25% del capitale tra il 2009 e il 2013. Ai tedeschi però interesserebbe solo una parte della compagnia, quella “aviation”, non i servizi di terra e la manutenzione (insieme fanno 4.700 lavoratori), oltre a un deciso taglio della flotta e delle rotte in perdita.

Nervi scoperti

Archiviate, almeno per ora, le accuse di tradimento agli italiani da parte della Lega sulle modifiche al Meccanismo europeo di Stabilità e le perplessità del Movimento 5 Stelle, da sempre contrario al Fondo “salva stati”, con il capo politico pentastellato e ministro degli Esteri Luigi Di Maio che ha dichiarato: “Non firmo nulla finché l’Italia non è sicura al 200%” (e tre parlamentari del Movimento sono passati nelle fila leghiste), dopo che il premier è andato a riferire con toni rassicuranti alle Camere lo scorso 2 dicembre. Le quattro forze di governo  sono state in grado di mettersi rapidamente d’accordo sul salvataggio di Banca Popolare di Bari commissariata da Banca d’Italia. In un primo tempo c’erano state schermaglie tra il titolare della Farnesina e il leader di Italia Viva, con il primo che evocava la gestione del caso di Banca Etruria come un esempio negativo e il secondo che accusa l’alleato di governo di voler nazionalizzare la Popolare. L’esecutivo ha poi licenziato un decreto per un finanziamento da 900 milioni che, passando per Invitalia, andrà a rafforzare l’istituto Mediocredito centrale per rilanciare l’istituto. Ma sempre sul tema banche si apre un altro fronte: quello della presidenza della Commissione bicamerale d’inchiesta. Il Movimento 5 Stelle ha candidato il senatore Elio Lannutti, che pochi mesi fa aveva ritwittato un link dal contenuto antisemita sul falso documento del Protocollo dei Savi di Sion – vi si sostiene che una fantomatica lobby ebraica controlli il mondo della finanza – e in conflitto d’interessi. Suo figlio Alessio infatti lavora proprio in Banca Popolare di Bari. Gli alleati di governo sono insorti, portando così il M5s a ritirare la candidatura in attesa di una decisione comune. Ma i nervi scoperti non finiscono qui, ci sono in ballo altre questioni rese ancora più delicate dal loro carattere identitario per ciascuna forza politica. Per i pentastellati, la legge Bonafede sul blocco della prescrizione dopo la sentenza di primo grado. Ma gli altri componenti della maggioranza ne hanno chiesto la sospensione fino all’approvazione di una complessiva della giustizia che acceleri i tempi dei processi. Per i dem, la legge sulla cittadinanza. Tra ius soli “temperato” e ius culturae, in Commissione alla Camera dei Deputati, da circa tre mesi sono state presentate tre proposte di legge, da Laura Boldrini, deputata eletta nelle file di LeU e passata nello schieramento dei democratici, da Renata Polverini, che ha lasciato il gruppo di Forza Italia a Montecitorio proprio per il dissenso sul tema, e da Matteo Orfini. Ma per il capo politico grillino Di Maio questa continua a non essere una priorità, nonostante l’invito rivolto alla politica dal presidente della Cei Gualtiero Bassetti a fine settembre. 

L'agone politico

Tutto questo è ciò che è ben visibile in primo piano, ma se si guarda sullo sfondo si scorgono alcuni movimenti e alcune tensioni. Di Maio ha visto la sua autorità sul Movimento vacillare di fronte alla crescita di popolarità del presidente del Consiglio, per lo scontento – celato ma diffuso – tra i parlamentari contrari all’alleanza con il Partito democratico e per gli scarsi risultati infilati alle elezioni europee e in tutte le regionali, dove invece decolla il centrodestra a trazione leghista che ora vuole insidiare il governo dem in Emilia-Romagna. Per il Pd, la nascita spontanea del movimento di piazza delle Sardine rappresenta una risorsa in quanto raduna un ampio popolo che, invece di marciare gridando slogan inneggianti all’antipolitica, chiede più e miglior politica, ed è antafascista senza essere dentro lo schieramento antagonista. Ma al tempo richiede ai democratici una notevole capacità di dialogo, evitando la tentazione di “mettergli il cappello”. Infine c’è la variabile Matteo Renzi, colui che ha fatto nascere il governo Conte II. Il fondatore di Iv rappresenta una spina nel fianco per il suo ex partito al quale ha preso diversi parlamentari e al quale vuole sottrarre i voti. Renzi, inoltre, deve rendersi visibile all’elettorato moderato e di centrodestra per puntare alla doppia cifra alle prossime elezioni. Questo lo spinge a marcare le distanze dall’anima “pentastellata” dell’esecutivo. Tutte “vibrazioni” sotterranee che possono rendere meno stabile il secondo governo di Giuseppe Conte, una volta mangiato il panettone.