La 'ricreazione' sanremese

Partiamo dal fondo: Claudio Baglioni, commentando lo stato della musica italiana a margine della conferenza stampa  finale, ha affermato che nel mondo della musica bisogna “ricominciare a sporcarsi le mani, cercare di rompersi il muso e prendersi la responsabilità, dando risposte per quanto possibile”. Bene. Anzi, bravo, sette più. Ma se questa è la visione del settore in cui “opera” da anni il cantante e già ex direttore artistico – per il prossimo anno si vedrà, mai dire mai – viene da chiedersi se questa edizione del Festival sia stata davvero in sintonia con il Paese, oppure si sia trattato di un “volo sopra la follia”, per citare (permetteteci questo lusso) Vasco Rossi. Fuor di metafora l’Italia, essendo immersa come uno straccio dentro a un secchio pieno d’acqua, sta vivendo questa ennesima campagna elettorale o la sta solo subendo? La nostra impressione è che prevalga la seconda ipotesi. Dunque non è la musica che dovrebbe tornare a sporcarsi le mani, a prendersi le responsabilità, ma l’intero Paese, che ha smesso di fare ciò da molto tempo.

Sporcarsi le mani

Se tale è la distonia fra Paese reale e Paese canterino significa che Sanremo è stato una bella ricreazione, una sana boccata d’ossigeno fra uno spot elettorale e l’altro, fra una promessa economica e l’altra. E andando al di là di vincitori e vinti, un po’ come con i papaveri e le papere, dei protagonisti resteranno solo i ritornelli, la 68esima edizione della kermesse musicale ha messo in evidenza la capacità degli italiani di estraniarsi facilmente dalla realtà. E allora chi è che deve davvero sporcarsi le mani, chi è che deve rompersi il muso? La politica ha smesso da tempo di fare ciò, preferendo vivere dentro un’eterna campagna elettorale. E la cosiddetta classe dirigente, comprendo dentro a questa voce della rubrica anche manager e imprenditori, cerca di scrutare l’orizzonte in attesa di un’alba che riporti l’economia a far splendere il sole sul nostro Paese. Ma nessuno si sporca le mani davvero.

Una “baglionata” a settimana

Certo, Pierfrancesco Favino, con il suo monologo finale, ha provato a portare sul  palco dell’Ariston il male di vivere e le difficoltà dell’esistenza di coloro che hanno come unica certezza un futuro incerto. Ma non basta una bella prova d’attore a spezzare il filo rosso della finzione. Ci vuole ben altro. E, del resto, il trio di finalisti dimostra come l’accomodante soluzione all’italiana (canzone sospesa, discussa, valutata e poi riammessa per farla vincere in virtù del tema trattato) sia sempre la scorciatoia preferita da tutti. Quello non è sporcarsi le mani, ma solo la faccia, dopo averla tenuta rasata e pulita per cinque serate cinque. Avremmo preferito qualcosa di meglio e di più. Dunque questo Festival va in archivio con un bel messaggio finale ma con il sapore che è già sfumato sui titoli di coda. Forse ci vorrebbe una “baglionata” a settimana per uscire dal torpore, magari cantando e ballando…..