Filippo Arlia: “Io, la Calabria e quella rinascita a tempo di musica”

Giovanissimo ma già uno dei nomi più affermati sul panorama della musica classica internazionale: Filippo Arlia è un direttore d'orchestra, fra i più importanti a livello mondiale. Ma l'aver toccato con mano alcuni fra i più importanti palcoscenici del mondo, dall'Auditorio Nacional de Musica di Madrid alla Carnegie Hall di New York, non ha minimamente intaccato il suo orgoglio italiano. Men che meno l'attaccamento viscerale alla sua terra natia, la Calabria. “Un calabrese doc” si definisce a In Terris il direttore artistico del Festival Internazionale di Musica ed Arte, in programma dal 10 al 15 settembre nella città portuale di Cetraro: nel suo percorso professionale, iniziato al conservatorio di Vibo Valentia e snodato poi sotto le luci della ribalta mondiale, la natia terrazza sul Tirreno è rimasta sempre la sua casa. E nell'estro della sua bacchetta, così come nella passione delle sue parole, emerge la fierezza di un popolo che, anche attraverso l'impegno dei suoi uomini di cultura, punta a rilanciarsi regalando ai giovani calabresi la possibilità di valorizzare se stessi e la propria musica. Magari godendo finalmente della possibilità di suonare sulla loro terra, sostituendo al sogno di ribalte oltreoceano la possibilità concreta di ricostruire con le proprie mani l'immagine culturale della propria regione.

 

Filippo Arlia, partiamo dall'esperienza del Festival: un appuntamento importante e rinnovato per una terra che punta sempre di più a conciliare la cultura con le proprie bellezze paesaggistiche…
“Il Festival in realtà è alla dodicesima edizione ma finora si era limitato alla partecipazione degli studenti. Si tratta infatti di un campus, dove ci sono ospiti anche internazionali che partecipano, come Stefano Di Battista che terrà una lezione per i sassofonisti, Volodymyr Runchak per la fisarmonica. E ci sono 200 studenti che dalle 10 del mattino alle 18 del pomeriggio hanno fatto lezione intensiva con questi docenti, per poi esibirsi la sera nei concerti. Quest’anno, dopo 12 anni, la Regione Calabria è intervenuta a sostegno di questa manifestazione e, per questo, non si è limitata più alla sua natura di campus ma ha annoverato importanti ospitate. E' nato così questo nuovo format che, di fatto, costituisce la prima delle nuove edizioni del Festival. Il clou è stato senza dubbio la serata del 13, con l'intervento di Michele Placido. L’attore non ha fatto una vera performance ma un intervento a sostegno della musica classica”.

Un evento importante che pone però l'attenzione su un tema particolarmente urgente…
“La Calabria è l’unica regione che non ha un teatro stabile. Vogliamo quindi richiamare l’attenzione delle istituzioni e, per far ciò, abbiamo chiesto aiuto a Placido, che è un grande appassionato di classica, per accendere i riflettori su questa mancanza, questa lacuna che può però essere calmata”.

In questo senso, il Festival non solo rappresenta un evento di respiro internazionale ma anche (e soprattutto) una grande opportunità per i giovani calabresi che iniziano ad approcciarsi alla musica…
“Assolutamente. E’ assurdo che un giovane musicista, per poter lavorare, debba per forza emigrare. E’ vero che ognuno può decidere di vivere dove vuole, perché il mondo è grande, ma la Calabria non dà la possibilità a un musicista di fare un concorso nella propria terra per poter suonare. Oggi ci sono quasi 5 mila giovani che studiano qui la musica classica nei vari conservatori e che, quando avranno finito il loro percorso di studi, matematicamente dovranno per forza andar fuori per fare il loro percorso, perché qui non c’è il teatro che gli permetta di fare i concorsi. Io sono convinto che le risorse ci siano ma che vadano distribuite in maniera più equa, più intelligente”.

Una mancanza dovuta a cosa? Si tratta di una semplice destinazione delle risorse a più urgenti esigenze o ritiene vi sia un ritardo a livello culturale?
“Io credo ci sia un grave ritardo culturale, per il semplice motivo che noi non abbiamo una tradizione: non c’è mai stata un’orchestra stabile, non c’è mai stato un teatro, quindi non c’è la tradizione di abbonarvisi per il pubblico calabrese. Questo da un lato può essere deficitario, dall’altro può essere una marcia in più perché laddove una cosa non c’è può essere costruita. E vorrei fare un esempio…”

Prego…
“I Paesi arabi, che sono più avanzati, negli ultimi trent’anni hanno incentivato la nascita di orchestre che studiano e suonano la musica classica occidentale. Eppure, senza dubbio, non sono in quest’ambito Paesi all’avanguardia: Egitto o Tunisia, ad esempio, non sono nazioni con tradizioni millenarie su questi argomenti. Anzi, sono Paesi neofiti eppure stanno investendo tanto sulla musica classica. Proprio il fatto che in Calabria non ci sia mai stata un’orchestra stabile né un teatro, è una terra vergine su cui costruire qualcosa di importante, perché c’è tutto lo spazio per poterlo fare”.

A questo proposito, il suo è un ruolo senza dubbio prestigioso, dal momento che il direttore d'orchestra, oltre che uomo di musica, è anche uomo di cultura. Riscontra in questo senso un'aspirazione delle più giovani generazioni al palco della direzione piuttosto che al singolo strumento?
“Sì, la propensione giovanile c’è ed è positivo che ci sia. Poi bisogna stare attenti a non confondere il direttore d’orchestra con quello che, tanti anni fa, venne definita una figura inutile perché agitava solo le mani mentre gli altri lavoravano. Non è assolutamente così. Il direttore d’orchestra è colui che spiega agli altri come devono suonare. Secondo me è un ruolo di maggiore responsabilità rispetto a tutti gli altri, poiché se il corno sbaglia la colpa è del direttore d’orchestra. Ecco perché l’approccio a questo ruolo non può avvenire come prima scelta in un percorso di studio ma bisogna avvicinarsi in maniera diversa: prima c’è bisogno di conoscere la musica, a leggerla e, perlomeno, imparare a suonare uno strumento. Dopodiché ci si può approcciare alla direzione anche perché, almeno in teoria, un direttore d’orchestra dovrebbe essere un ‘supermusicista’”.

Lei ha consolidato una fama a livello internazionale ma conserva un legame ancora estremamente radicato con la sua terra…
“Io sono un calabrese doc e, nonostante abbia la possibilità e il piacere di spostarmi molto, vivo in un piccolo paese dell’alto Tirreno cosentino, sul mare. Sono rimasto in Calabria, anche se ho lavorato in quaranta Paesi nel mondo e, seguendo la musica un po’ ovunque, ho avuto l’opportunità di conoscere molte culture, da quella araba a quella sudamericana, in Nuova Zelanda, in Cina. A un certo punto, però, ho sempre sentito l’esigenza di tornare, perché sono innamorato della mia terra e sono il classico calabrese che, quando si alza la mattina, vuole l’espresso fatto in un certo modo. Per dire che sono legato alle mie abitudini. Io ritengo che la nostra sia una terra che ha delle grandi qualità e ci sono pregi che nessuno ci può togliere. Ad esempio, lo spettacolo del 13 si è svolto sul porto turistico di Cetraro, con un meteo di 35 gradi: una giornata bellissima in un posto straordinario. E questo è un bene che non ci può togliere nessuno: la possibilità di mettere un palco sopra il porto con uno scenario così bello alle sue spalle. Qualche settimana fa ho letto che l’Italia possiede la stragrande maggioranza del patrimonio artistico mondiale. E forse gli italiani si sono un poco adagiati, pensando che con le loro radici e la loro tradizione potessero vivere di rendita. Ma basterebbe invece sfruttare un 10% di quello che abbiamo per arrivare veramente lontano”.

In quest'ottica, il ruolo di grande rilievo assunto da eventi come quello di Cetraro risultano un importante propulsore, specie per regioni come quelle del Sud Italia, che hanno bisogno di incentivare le giovani generazioni a restare nelle loro terre per contribuire alla loro edificazione…
“Assolutamente. Anche perché gli spettacoli che facciamo sono sempre sold out. Questo significa che la gente ama la musica classica e anche la lirica: semplicemente bisogna spiegargli di cosa si tratta e portarli a conoscenza del fatto che esiste una realtà come questa che lavora e che propone un modello di questo tipo. Quindi il terreno non è solo vergine ma è anche molto fertile”.

Musica classica ma anche altri generi artistici nella rassegna sotto la sua direzione: ritiene proficua una loro commistione?
“Sì, perché io ho sempre creduto nella contaminazione fra generi. Forse in Italia abbiamo a volte un modo di intendere la musica un po’ troppo conservatore, con la tendenza a dividere i generi fra di loro in modo esagerato. Invece contaminarli può essere un modo per attirare l’attenzione sulla musica: infatti, in queste serate, abbiamo avuto musicisti classici ma anche persone che fanno musica popolare come Riccardo Testi, il maggiore esponente della musica popolare sulla fisarmonica. E poi Michele Placido, cantanti lirici… Una commistione di generi, classica, lirica e teatro insieme. Non ci deve essere una corsia come nelle autostrade: la musica è un unico grande genere e mescolare le varie correnti tra di loro è un modo anche per attirare i giovani che, in questo modo, possono smettere di guardare alla musica classica come ‘una roba da vecchi’”.

Lei ha avuto la possibilità di conoscere molti Paesi e molte culture: in qualcuno di questi ha riscontrato una tradizione musicale forte o quella italiana continua a essere un modello di riferimento inarrivabile? 
“Abbiamo un’altra fortuna: quando un musicista italiano si muove per andare all’estero, il primo applauso parte solo perché è italiano. Questo perché abbiamo una tradizione incredibile: chi vuole studiare la musica classica non può non pensare all’Italia come a un punto di riferimento perché, ad esempio, la parola ‘maestro’ è internazionale, i segni dinamici sono italiani, perché li usava Vivaldi e sono validi per tutte le lingue… Quindi siamo un punto di riferimento e tutti gli altri Paesi devono un po’ adeguarsi a questo. Noi siamo la casa della lirica ad esempio, e un cantante russo, americano o di qualunque altro Paese, per poter cantare deve studiare l’italiano, perché Verdi e Puccini sono il massimo a livello mondiale. E questo per noi è un grande punto di partenza. Io che sono calabrese, ho una dizione meno precisa rispetto a un russo che canta in italiano, perché lui studia dizione e io no. E questo è indicativo per capire come la lingua italiana sia considerata da noi e da chi sta fuori dall’Italia”.