Non è solo un rigurgito di fumo tossico quello che esce dai comignoli dell'ex Ilva. In quei filamenti di emissioni che sbucano dalle ciminiere degli impianti tarantini volano dieci anni di istanze inascoltate, di appelli cittadini, di ripetute richieste di una conciliazione salute-lavoro finora mai arrivata. E' un enigma di fondo quello che logora la città di Taranto, vessata dalle tempeste di polveri rosse, stretta nella morsa della paura fra chi teme per sé stesso e chi la speranza non ce l'ha più, sostituita a dosi sempre maggiori dalla rabbia e dalla frustrazione. E' ferma Taranto, osserva il ping pong fra governo e ArcelorMittal, respira gli scarichi e spera, in parte e al contempo, che non si assesti il colpo di grazia a uno dei poli industriali più importanti d'Italia. Se qualcuno è arrivato a sperarlo, è forse perché la fiducia nell'invocato piano ambientale, nella bonifica promessa, ormai l'ha messa in archivio. Una partita a scacchi che manca di un giocatore, in attesa di una mossa di risposta che, per qualcuno, potrebbe non arrivare più. Ecco perché Taranto scende in strada, davanti a un Paese che sembra non accorgersi come le richiesta di non morire e quella di poter vivere siano due facce della stessa medaglia.
C'è chi la fabbrica la vive da dentro e chi la osserva da fuori, con ponteggi e ciminiere che coprono lo scorcio di mare e si affacciano su ciò che resta della città, ancorata alle sue tradizioni e arroccata sull'isola che ospita la sua parte più antica, il nucleo nevralgico della storia cittadina, dove resiste la Taranto vecchia, dei pontili e dei pescatori. Giovanni appartiene a entrambe le categorie: è un operaio di ArcelorMittal ma anche un tarantino, uno dei tanti che lotta per il suo posto di lavoro e per garantire a sé stesso, come alla propria famiglia, un futuro che non sia solo pane ed emissioni tossiche. “Io lavoro da quindici anni negli impianti ex Ilva – racconta a In Terris -, mi occupo di trasformatori e di alta tensione, e ho quindi la possibilità di girare per tutta l'ampiezza dello stabilimento che, come noto, è grandissimo, circa due volte e mezza la stessa città di Taranto”. E anche lui, come i suoi colleghi, l'ondeggiante deriva presa dalla complessa trattativa governo-Arcelor, la vive con l'apprensione di chi è consapevole del rischio che corre: “Quello che viviamo oggi è un sentimento di delusione… La prospettiva degli esuberi è quella che spaventa un po' tutti e iniziano anche a venir meno quelli che erano gli equilibri che garantivano la stabilità per la famiglia e per i figli. Come operai siamo indignati nei confronti di una politica che ci ha abbandonati da anni. Il caso Ilva non va avanti da un giorno ma è da dieci anni che il sistema è in crisi e abbiamo già pagato il prezzo, con 1400 persone che sono già in cassa integrazione”.
C'è l'augurio, o meglio, “la speranza che non si spenga la fabbrica, perché dà lavoro a migliaia di persone”. Ma, in fondo, è sempre stato questo il nodo gordiano, per quasi dieci anni di controversie socio-politiche che, a conti fatti, la necessaria conciliazione fra la garanzia di un posto di lavoro e l'imprescindibile tutela ambientale non l'hanno mai trovata. E anche chi protesta per salvare il proprio lavoro ne è consapevole: “Ciò di cui c'è bisogno, è di lavorare in uno stabilimento all'avanguardia, ecocompatibile. Perché oltre a essere lavoratori siamo cittadini di Taranto, che come tutti hanno a cuore la propria famiglia e tutto il sistema che alimenta la vita della città. Per questo anche noi operai sosteniamo l'ambientalizzazione”. La richiesta, in fondo, è solo una, sia pur fondamentale: “Vorremmo che il governo si assumesse finalmente le proprie responsabilità e, in questo senso, anche il discorso della nazionalizzazione non va bene: abbiamo vissuto già sette anni di amministrazione straordinaria vedendo ben poco a livello di bonifica, su territorio e azienda… Non siamo d'accordo con questo discorso lavoro-salute, perché questi due aspetti devono convivere. Lo scorso anno, a settembre, c'è stato un negoziato al Mise dove c'è un programma fatto bene, con un piano industriale e occupazionale. Il grande errore, però, è stato quello della politica e del governo, anche sul tema delle multinazionali. Di soluzioni all'orizzonte, le stesse che il controverso scenario politico offre, non meno nebulose dei vapori che macchiano il cielo di Taranto: “Al momento il governo è con le spalle al muro, perché deve scendere a compromessi con lo scudo penale, non può non concederlo. Chi ne pagherà le conseguenze saranno sempre gli operai, perché c'è sempre il rischio degli esuberi. Alla fine sono sempre gli operai che subiscono, che pagano il costo più alto. Noi chiediamo alle istituzioni di assumersi tutte le responsabilità, perché la situazione di oggi è solamente legata alla loro mancanza di impegno”.
Ma Taranto non è solo Ilva, e non sono solo i manifestanti contro “il mostro” a farlo presente. C'è una città oltre i cancelli dell'industria, che osserva lo skyline frastagliato dai comignoli cercando di ricordare come fosse il paesaggio prima dell'arrivo della vecchia Italsider, poi Ilva, poi ArcelorMittal. Ora non è più chiaro cosa sia né cosa sarà, ma quello che c'era laggiù, oltre la città vecchia, Rossella, anche lei tarantina, se lo ricorda: “Lì, dove oggi ci sono gli impianti – ha raccontato a In Terris -, si poteva scendere al mare, c'erano anche dei terreni coltivati da contadini, alcuni anche miei familiari. Ho ricordi addirittura di una pineta che bisognava attraversare per scendere fino alla spiaggia di uno dei nostri due mari”. Di quel paesaggio, però, resta solo la memoria: l'avvento dell'industria ha reso l'aria pesante, coperto lo scorcio al di là dei seni del Piccolo, offuscato l'appartenenza reciproca di Taranto al proprio mare: “E' come se ci fosse una mancata coesione nella nostra classe imprenditoriale che, potenzialmente, avrebbe risorse infinite alle quali attingere. Taranto non ha nulla da invidiare a città come Lecce, ha una sua tradizione, un'identità forgiata da una storia che l'ha preceduta e che la rende diversa dagli altri importanti centri pugliesi. Taranto non è soltanto Ilva, abbiamo potenzialità in essere che non vengono sfruttate appieno: abbiamo la pesca, l'agricoltura, la mitilicoltura, le masserie di Crispiano, perle come il museo della Magna Grecia o la riserva del Mare Piccolo. Ci sono tante cose belle in questa città che non hanno l'attenzione che meriterebbero. E questo ci fa male“.
Il ragionamento sul caso dell'ex Ilva non andrebbe sganciato dal piano su cui si poggia: perché lavoro e salute non sono termini contrastanti ma, forse, i due elementi trainanti alla base di qualsiasi contesto sociale, specie in una città: “Io ho abitato per tanti anni nel quartiere Tamburi e so cosa significa. Qualche volte, quando tornavamo dalle vacanze, vedevamo il nostro balcone ricoperto di una coltre nera. Ricordo che mia madre impiegava molto tempo per pulirla, e ricordo anche che molte sere l'aria era irrespirabile. Ecco, forse un altro danno creato da questo impianto è stato l'aver frenato il nostro spirito imprenditoriale, perché molti hanno cercato – legittimamente – un posto fisso. Io provengo da una famiglia di mitilicoltori, e mio nonno è stato uno dei pioneri di questa pratica a Taranto. Ha avuto l'ardire di creare un'azienda che ha dato lavoro ai suoi figli e ad altre persone, avevamo dei vivai di cozze nel mare cittadino. E' riuscito a farcela attraverso uno spirito levigato dalle nostre tradizioni. Ora non ci sono più persone di questo spessore e, probabilmente, nemmeno il mare è più lo stesso di prima”. C'è uno spirito però, conservato tra la rocca della città vecchia e gli odori del porto. Come a dire che è dalla propria identità che nascono inaspettate potenzialità di sviluppo. Basta ricordarcene.
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