Un milione di posti al Sud grazie alle imprese “rosa”

Le aziende guidate da donne danno lavoro a un milione di persone nel Mezzogiorno. Tre milioni di lavoratori sono impiegati in Italia nella galassia formata da 1 milione e 330mila imprese “in rosa” (dati Unioncamere e InfoCamere). L’imprenditoria femminile rappresenta, quindi, una delle carte per il rilancio del Sud al quale il governo ha dedicato ieri un tavolo con le parti sociali. Le aziende con donne al comando, inoltre, sono anche quelle più floride del mercato. In Molise, per esempio, il 27% delle aziende attive sul territorio hanno al vertice una donna. Una realtà da valorizzare in tutta Italia. Dal 16 settembre fino al 31 ottobre 2019 sarà possibile presentare domanda di partecipazione alla 7° edizione del “Premio Idea innovativa, la nuova imprenditorialità al femminile” rivolto alle micro, piccole e medie imprese femminili operanti a Roma e Provincia. Il bando promosso dalla Camera di Commercio di Roma concede un contributo a fondo perduto per supportare economicamente le migliori idee per sviluppare soluzioni o percorsi innovativi per lo svolgimento dell’attività d’impresa, per costituire buone prassi nell’ambito della creazione d’impresa e dello start-up, per sostenere progetti imprenditoriali volti allo sviluppo del tessuto sociale del territorio o alla rigenerazione urbana e sociale delle città. Le somme a bando ammontano a 25 mila euro. Il premio prevede, per ciascuna impresa vincitrice, un contributo a fondo perduto pari al 50% delle spese riconosciute ammissibili e fino ad un importo massimo di 5 mila euro. Eppure, come documenta il Sole 24 Ore, “la bassa occupazione delle donne continua a rappresentare uno dei principali punti di debolezza del Paese, anche a causa dell’assenza di vere politiche di conciliazione vita-lavoro”. Un’italiana su due non lavora.

Gli ostacoli da superare

In Europa solo Malta sta peggio dell’Italia nella classifica dell’occupazione femminile: una perdita di prodotto interno lordo del 15% valutata dal Fondo monetario internazionale. Il 30% delle donne dopo la nascita del figlio lascia il lavoro. E nel Mezzogiorno il dato negativo è doppio rispetto al Nord. Tra i 38 Paesi analizzati nell’ultimo rapporto Ocse, l’Italia è uno dei pochissimi Stati in cui la quota di occupazione delle madri diminuisce invece di aumentare quando il figlio supera i tre anni. Secondo i dati Eurostat, il tasso di inattività delle donne è di 20 punti superiore a quello degli uomini (45,9% contro 25,9%). Un «gender gap» che solo a Malta è maggiore (27 punti di differenza). E costa caro il divario di genere fra uomini e donne in opportunità e status. Alcune aziende italiane sono corse ai ripari dotandosi di strutture interne per la parità di genere. Dal punto di vista dell’occupazione femminile, dunque, l’Italia è in fondo alla classifica europea. Eppure le donne si laureano di più, prima e con voti migliori. In Italia il 60,3% dei laureati è donna. In media il loro voto di laurea è di due punti superiore a quello degli uomini, eppure guadagnano mediamente 200 euro al mese in meno. In Italia la percentuale delle donne che non hanno un impiego tra i 25 e i 54 anni (cioè il periodo in cui si dovrebbe essere più attive sul mercato, come occupate o in cerca di impiego) è del 34,1%, a poca distanza da Malta con il 34,2%, a fronte dell’11,4% in Slovenia e dell’11,6% in Svezia. “Accanto alle aspettative rispetto alla famiglia, persiste una cultura aziendale largamente maschilista, che ritiene le donne inaffidabili, o meno competenti degli uomini e che considera la necessità di conciliare lavoro e responsabilità famigliari un’interferenza fastidiosa o non accettabile”, analizza Saraceno. I dati di Almalaurea mostrano che la discriminazione, a parità di titolo di studio, inizia già prima che i giovani laureati maschi e femmine creino una famiglia, incidendo sia sui tassi di occupazione, sia sui tipi di contratto, sia sui livelli di remunerazione. Queste differenze diventano ancora maggiori a cinque anni dalla laurea. Quando si rinuncia a cercare lavoro è perché paradossalmente un’occupazione può trasformarsi in una perdita economica. E’ il caso di Ilenia Cardinale Franco, 34 anni. “In vita mia ho sempre lavorato, ma ora con rette dell’asilo da 450 euro al mese mi conviene restare a casa”. Prima in Emilia Romagna e ora nelle Marche, ha fatto l’operaia a contratto in diverse aziende metalmeccaniche. “Conti alla mano, non ha più senso”, scuote la testa. Colpa in primo luogo del caro-asilo comunale. “Io e mio marito Luca abbiamo dovuto prendere una decisione drastica perché ci siamo scontrati con un paradosso – racconta – Abbiamo tentato qualunque strada per iscrivere all’asilo nostra figlia Letizia e abbiamo sofferto per un meccanismo assurdo. I posti disponibili sono pochissimi, se lavoro anch’io saliamo di fascia di reddito e siamo tagliati fuori dagli istituti pubblici. Quelli privati sono così costosi che diventa più conveniente occuparmi a tempo pieno della bimba finché non andrà alle elementari”. E aggiunge: “In Francia e in Germania ogni bimbo che nasce ha un posto garantito all’asilo. In Italia è terno al lotto, un calvario, Le graduatorie vengono compilate in base a criteri burocratici: bastano due stipendi normalissimi a farti classificare in una fascia elevata”. Il dato regionale è netto.

Un vantaggio da sfruttare

Al Sud le donne in età da lavoro ma inattive sono il 60,7%, quasi il doppio rispetto al Nord (37,3%) . L’occupazione femminile è da record nel Mezzogiorno, dove è comparativamente bassa anche quella maschile. La crisi cioè ha colpito soprattutto il lavoro al Sud, allargando ulteriormente i divari territoriali. Andrebbe presentata la maternità non più come un ostacolo al lavoro bensì come un vantaggio da sfruttare perché l’esperienza della nascita e della cura dei figli consente di acquisire una serie di capacità, come la flessibilità, la creatività ma anche l’essere multitasking e buon motivatore, determinanti nella vita lavorativa. Che le distorsioni aiutino lo dimostrano anche recenti esperimenti negli Usa. Per incrementare la scelta di direttori d’orchestra donna, l’unico modo è stato quello di organizzare selezioni al buio, ossia con la tenda del palcoscenico chiusa. Intanto il divario di genere è in crescita: su 144 paesi analizzati, l’Italia è al 50°posto in classifica, in calo di 9 posizioni rispetto al 41° posto del 2015. Nelle opportunità economiche e nella partecipazione, il divario è passato dal 60% del 2015 al 57% del 2016. Sulla differenza di salario l’Italia è scesa dal 109° posto al 127°. Rispetto allo scorso anno, calano anche i ruoli manageriali e tecnici ricoperti dalle donne (dall’85° all’87° posto). Un grave danno per il sistema paese.  Nelle attività guidate da donne, che rappresentano quasi il 22% delle imprese totali italiane, operano mediamente 2,32 persone, a fronte dei quattro addetti della media complessiva, sottolinea il Sole 24Ore. E il problema delle dimensioni viene confermato anche dalle forme giuridiche utilizzate per avviare l’attività economica. Risultato: l’incidenza delle imprese unipersonali supera di oltre 10 punti percentuali quella che si registra per il complesso delle aziende (il 63% a fronte di poco meno del 52%). Un sintomo di fragilità strutturale che deve far riflettere. E che merita una risposta. Nelle aziende che operano soprattutto nel settore della sanità-assistenza sociale e dell’agricoltura, il tasso di femminilizzazione raggiunge rispettivamente il 37 e il 30 per cento, evidenzia il quotidano della Confindustria. Oltre ai servizi minori dove il capo è donna in più di un caso su due.