Riina, il boss sanguinario che sfidò lo Stato

Il capo dei capi. Così veniva chiamato il boss Totò Riina. Quello che veniva considerato ancora il capo assoluto di Cosa nostra, ombra nera di alcune delle più efferate stragi mafiose della storia italiana, è morto alle 3.37 del 17 novembre, portando con sé i suoi ultimi segreti. Da 24 anni era detenuto in regime di 41bis, nelle ultime settimane, aveva subito due interventi chirurgici dai quali, come spiegato giorni fa dai medici, difficilmente avrebbe potuto riprendersi. Vicino a lui, nelle ultime ore, ci sono stati i suoi figli, arrivati presso il Reparto detenuti dell'Ospedale di Parma grazie al permesso firmato dal ministro della Giustizia Orlando: solo poche ore prima, Riina aveva compiuto 87 anni. Lui, che nemmeno dal 41bis aveva smesso di dare ordini e minacciare di morte i magistrati (come il pm Nino Di Matteo) restando, per gli inquirenti, il boss indiscusso. Il capo dei capi, appunto.

Mai pentito

Da Corleone, dove era iniziata la sua scalata ai vertici mafiosi sotto l'ala del padrino Luciano Liggio, Riina aveva lanciato la sua folle sfida allo Stato a cavallo fra la fine degli anni 80 e l'inizio dei '90: a suo carico 26 condanne all'ergastolo, comminate per decine di omicidi e stragi, tra le quali quelle in cui persero la vita i magistrati Falcone e Borsellino. Crimini atroci, dei quali il boss non si era mai pentito. Anzi, nelle ultime intercettazioni aveva più volte ribadito il ruolo da lui ricoperto come capo assoluto, ritenendosi dispensatore di vita e di morte. Lo scettro del comando, secondo gli inquirenti, lo aveva d'altronde mantenuto anche nei suoi 24 anni di carcere duro, iniziati nell'ormai lontano 15 gennaio 1993, quando venne arrestato, e proseguiti fino a ieri sera, quando i figli hanno avuto il permesso di vederlo viste le condizioni disperate. In mezzo, anni e anni di mezze verità e di rivendicazioni.

Anni di sangue

L'ultimo processo a suo carico, incentrato sulla cosiddetta trattativa Stato-mafia, era ancora in corso. Quello che aveva da dire lo ha portato con sé, assieme a quei punti rimasti oscuri delle stragi di quasi trent'anni fa. Una vita sanguinaria, la sua, durante la quale ha ordinato o eseguito personalmente migliaia di omicidi, tra cui quelli di Boris Giuliano, di Pio La Torre, di Piersanti Mattarella, di Carlo Alberto Dalla Chiesa. Assieme a Bernardo Provenzano ha rappresentato per decenni il vertice di Cosa nostra alla quale aveva dato, di strage in strage, un assetto di tipo terroristico. Dal 1981 aveva scatenato la guerra di mafia che mise in ginocchio la città di Palermo nel corso di tre anni di sangue e violenza che lasciarono per le strade del capoluogo siciliano oltre mille morti. Da quel momento l'ascesa del futuro 'capo dei capi' fu palese: da lì inziò quella scia di sangue che avrebbe scosso l'Italia per tutto il decennio successivo.

Bindi: “Fine Riina non è la fine della mafia”

La morte del boss, a ogni modo, non arresterà la lotta a Cosa nostra, così come alle altre organizzazioni mafiose:  “La fine di Riina non è la fine della mafia siciliana – ha detto la presidente della Commissione parlamentare antimafia, Rosy Bindi – che resta un sistema criminale di altissima pericolosità… Totò Riina è stato il capo indiscusso e sanguinario della Cosa nostra stragista. Quella mafia era stata già sconfitta prima della sua morte, grazie al duro impegno delle istituzioni e al sacrificio di tanti uomini coraggiosi e giusti”.