Re Giorgio è sceso dal trono

Se c’è una cosa che a Giorgio Napolitano non è riuscita, in quasi nove anni di Quirinale, è quella di mettere d’accordo tutti, nonostante i propositi di imparzialità ed equidistanza dalla politica manifestati nelle ore che precedettero la sua prima elezione. Era il 10 maggio 2006 quando le Camere in sessione comune, tramontate le ipotesi che conducevano a Massimo D’Alema e Giuliano Amato, per la prima volta elessero al Colle un ex comunista grazie ai 543 voti espressi da Unione, Ds, Margherita, sinistra radicale e a quelli di una manciata di parlamentari Udc. Una scelta di rottura pilotata dall’allora governo Prodi mettendo in campo i numeri di una maggioranza appena nata ma già debole e destinata a una paralisi istituzionale che ne avrebbe determinato la caduta appena due anni dopo. Negli intendimenti avrebbe dovuto forse essere un mandato di transizione, anche per via degli 80 anni di Napolitano e per la precisa impronta politica che ne aveva caratterizzato tutta la carriera. Una nomina diametralmente opposta rispetto a quella di Carlo Azeglio Ciampi: dall’economista di forte respiro europeista al veterano delle istituzioni, amico di Palmiro Togliatti e Nilde Iotti.
Ma al di là degli intendimenti iniziali dei partiti il lungo mandato di Napolitano non è mai stato caratterizzato da fragilità o tentennamenti.

Lui uomo della primnapolitano3a Repubblica eletto nella seconda e destinato a traghettare il Paese verso la terza. Ed è stata probabilmente la sua estrazione politica (oltre alle gravi contingenze determinate dalla crisi economica iniziata nel 2008) a fargli mettere da parte il ruolo di arbitro terzo che la Costituzione gli avrebbe imposto per acquisire sempre maggiori spazi d’intervento all’interno delle dinamiche istituzionali. Una situazione che Napolitano ha sempre vissuto con estrema sofferenza, come quando, riluttante, cedendo al pressing di un sistema partitico travolto dall’antipolitica ha deciso di violare una prassi quasi secolare, accettando un secondo mandato il 20 aprile del 2013. Si dirà che sia stata una mossa volta a isolare il Movimento 5 Stelle e probabilmente è così, ma l’ormai ex capo dello Stato non si è mai tirato indietro di fronte alle responsabilità, anche quando il buon senso gli avrebbe consigliato altro.

Un esempio su tutti: la caduta del terzo governo Berlusconi alla fine del 2011 e la precisa indicazione data al Parlamento di scegliere Mario Monti come successore, nominato appositamente senatore a vita pochi giorni prima delle dimissioni dell’ex Cavaliere. E’ allora che Napolitano acquista su impulso della stampa avversa il titolo di “Re Giorgio”. Come un sovrano negli anni successivi segue la cosa politica più da vicino. Nel febbraio 2013 c’è il secondo passo in questa direzione, che fa assaggiare agli italiani il gusto (dolce o amaro dipende dalle opinioni) di un presidenzialismo de facto. La ventata disgregativa portata dal Movimento 5 Stelle conduce a uno stallo senza precedenti nella formazione dell’esecutivo. “Siamo arrivati primi ma non abbiamo vinto” dice, accigliato, Pierluigi Bersani nelle drammatiche ore che seguono il voto. Il Pd cerca, senza trovarlo, un accordo con l’universo pentastellato.

In una situazione normale il capo dello Stato avrebbe dovuto sciogliere le Camere e indire nuove elezioni. Ed è questo che la maggioranza degli italiani chiede per uscire dall’impasse. Ma con i fucili puntati dall’Europa, il Giorgio Napolitano riceve gli atleti olimpici di Londra 2012rischio di default ancora vivo e lo spread che torna a salire Napolitano sceglie di trasgredire nuovamente la consuetudine e trova la quadratura del cerchio. Individua in Enrico Letta l’uomo giusto per guidare un “governo del presidente”: appartiene al partito vincente ma la parentela con Gianni lo mette nelle condizioni di poter dialogare con la resuscitata Forza Italia di Berlusconi. L’obiettivo è arrivare al 2018 facendo le riforme, tra cui spicca quella della Legge Elettorale, un autentico cruccio per l’allora capo dello Stato. Ma la crisi all’interno del mondo dem e le bordate lanciate da Matteo Renzi alla vecchia nomenklatura rendono necessario un nuovo cambio a palazzo Chigi.

L’ascesa alla segreteria del rottamatore e la crescente influenza della sua corrente fanno il resto. A fine anno un Napolitano rafforzato da un secondo (ma temporaneo) mandato chiama Letta al Quirinale e lo invita a lasciare. Renzi viene incaricato con una clausola perentoria: cercare l’accordo con Berlusconi per fare quelle riforme vitali per la sopravvivenza dell’Italia. E’ il terzo governo in soli due anni non eletto dai cittadini, una realtà che le opposizioni, 5 Stelle in testa, cavalcano per portare fieno in cascina. Il resto è storia attuale, dal patto del Nazareno alla netta affermazione del Pd alle ultime europee sino al progressivo sgonfiamento, tra purghe e liti, dei grillini. Napolitano ha forse visto stabilizzarsi il quadro politico e per questo ha deciso di porre fine a una presidenza che, nel bene o nel male, resterà nella storia. E’ stato l’unico inquilino del Quirinale a essere rieletto, il solo a testimoniare in un processo per mafia, e uno dei pochi a essere stato ferocemente contestato. Con lui il presidente della Repubblica ha avuto un’evoluzione inattesa: ha perso quell’aurea eterea che la Costituzione gli ha impresso ed è sceso nell’agone politico, con tutte le conseguenze che ciò ha comportato.

@lullo82