Quel filo rosso tra Nassiriya e l'attacco all'Europa

Esistono i ricordi. Ed esistono poi schegge di memoria che penetrano nell’anima provocando dolore ogni qual volta si ripresentano. Questa è la sensazione che ricorre spesso nei sopravvissuti alle stragi. Come quella di Nassiriya, in Iraq, impressa nell’immaginario collettivo degli italiani.

Era la mattina del 12 novembre 2003, quattordici anni fa, quando un camion cisterna con a bordo tra i 150 e i 350 chili di esplosivo si lancia su due palazzine in cui risiedono carabinieri e militari italiani del contingente dell’operazione “Antica Babilonia”. L’attacco kamikaze dei terroristi islamici è devastante: dell’edificio rimane un’immensa nuvola di fumo nero, il suono delle urla e delle sirene è asfissiante, le macchie di sangue sul selciato sono la traccia della strage. Nassiriya è un inferno.

Il bilancio

Alla fine di una giornata convulsa, che spinge l’Italia davanti alle tv e alle radio per ricevere aggiornamenti, il bilancio è tragico: muoiono subito dodici carabinieri, quattro soldati dell’esercito e due civili. I feriti sono venti: quindici carabinieri, quattro militari e un civile. Alla fine la conta delle vittime italiane salirà a diciannove. Nel luogo dell’esplosione resta soltanto uno spaventoso cratere. I militari italiani sono sul posto per operazioni non di combattimento, bensì garantire il ripristino delle condizioni di sicurezza e vivibilità della zona. È per questo che la base si trova in centro città, nel cuore delle attività sociali.

Nei giorni successivi all’attentato, in Italia è il momento del lutto. Le salme tornano in patria per i funerali, che si terranno il 18 novembre 2013. Insieme ai resti dei caduti, rientrano anche i feriti. Le più alte cariche dello Stato vanno a trovarli in ospedale, le foto immortalano i volti consunti, provati. Dietro gli sguardi, sembrano leggersi ancora i fotogrammi di quanto avvenuto a Nassiriya.

Il racconto

Quei fotogrammi si fanno racconto quando il comprensibile riserbo si scioglie. Nel 2013, a dieci anni dall’attentato, il luogotenente dei carabinieri Benedetto Salvino, originario di Capaci, spiega a Il Sito di Sicilia che ci fu “un boato tremendo, pazzesco”. E ancora: “Sono volati via le porte, gli infissi, i vetri delle finestre, i computer, mobili, suppellettili, tutto insomma. Polvere e fumo, nonostante fossimo a circa due-trecento metri dall’esplosione. Ma il mio primo pensiero non fu la bomba, pensavo fossimo vittime di un attacco con razzi controcarro ed armi automatiche”.

Giunto sul luogo dell’attentato, Salvino parla di una “scena apocalittica”. “C’era tanta gente che urlava, e poi i pompieri, le ambulanza, gli americani che accorrevano e i nostri che cercavano tra le macerie e le lamiere – spiega -. Ovunque pezzi di muratura, sangue e olio di motore, parti di veicoli e brandelli umani, armi distrutte e sparse sul terreno, oggetti personali, parti di equipaggiamento, insomma, uno spettacolo raccapricciante”.

Salvino, nonostante una ferita al braccio, si mise a disposizione dei soccorritori per l’identificazione dei caduti. Ma dopo diverse ore, il medico gli impose di fermarsi per la gravità del taglio sul braccio. La sua dedizione gli valse, nel 2012, la medaglia d’oro di “vittima del terrorismo” da parte della presidenza della Repubblica.

Come lui, altri militari hanno ricevuto riconoscimenti istituzionali. Le gesta di coraggio sono lo sfondo eroico di uno scenario listato a lutto. In tal senso va il ricordo di Marco Pinna, appuntato scelto dei carabinieri, schiacciato ma non seppellito dalle macerie dell’edificio deflagrato. Con una gamba lacerata fino all’osso, restando desto riesce ad aiutare alcuni feriti. “Sei in piedi, puoi fare qualcosa e lo fai: questo è l’istinto dell’uomo”, spiegava a Vanity Fair nel decennale della strage.

Terrore indelebile

Ma oltre ai riconoscimenti, c’è anche altro. C’è il terrore che resta indelebile. Ed ha un nome: disturbo post-traumatico da stress. Ne parla a ViceNews Rocco Bozzo, altro reduce di Nassiriya. Racconta che i sintomi compaiono non da subito e che la situazione peggiora drasticamente, anche se c’è difficoltà ad accettarlo, non fosse altro che per la paura di perdere il posto di lavoro.

“Cambia il rapporto con la moglie, con i figli – spiega l’uomo -. Di notte ti svegli di soprassalto, diventi facilmente irritabile, certi odori sono come pugni nello stomaco, senti il bisogno di stare da solo, la necessità di sentire i colleghi, solo con loro ti capisci”.

Il filo rosso con l'attualità

Mentre i familiari delle vittime si caricavano sulle spalle il fardello di sopravvivere alla morte di un caro e i sopravvissuti convivevano con questi sintomi distruttivi, in Italia negli anni sono state aperte due inchieste su quei fatti. Una delle due ha individuato in Abu Musab al-Zarqawi, ritenuto da molti il fondatore dell’Isis, la mente dell’attentato. Insieme a lui, ucciso nel 2006 da un bombardamento congiunto statunitense e giordano in Iraq, furono identificati altri cinque terroristi dietro la strage di italiani a Nassiriya.

Uno dei nomi finiti nell’inchiesta è poi tornato d’attualità nell’agosto scorso. È quello dell’imam Abdelbaki Es Satty, considerato leader della cellula jihadista di Barcellona che ha compiuto il recente attentato sulle Ramblas. Secondo quanto riporta il quotidiano spagnolo El Periodico, “una fotocopia del suo documento di identità venne rinvenuta in casa di Mohamed Mrabet Fhasi”, il presunto capo della cellula di terroristi di Al Qaida che reclutò l’algerino Belgacem Bellil, il terrorista che ha provocato la morte dei 19 italiani e 9 iracheni a Nassiriya nel 2003.

Ecco allora che Nassiriya si intreccia con l’attualità. La strage degli italiani non è solo un ricordo. È anche un inferno che si portano dentro i sopravvissuti, un fardello di dolore per i familiari delle vittime. Ed anche un’avvisaglia, così lontana e così vicina, di un clima di panico costante che si respira oggi nelle città occidentali.