Omicidio Macchi, delitto senza colpevole

Stefano Binda “deve essere assolto con la formula più ampia possibile”. Così aveva chiesto invano un anno e mezzo fa l'avvocato Sergio Martelli, secondo difensore di Stefano Binda, allora imputato in Corte d'Assise a Varese al processo per l'omicidio di Lidia Macchi, la studentessa di Varese uccisa a coltellate e rinvenuta cadavere nei boschi di Ciffiglio (Varese) il 5 gennaio 1987, aveva concluso la sua arringa, a seguito di quella della collega Patrizia Esposito. Nel suo discorso conclusivo ai giudici il legale ha spiegato come la tossicodipendenza di Binda, secondo i periti dell'accusa tale da impedirgli di poter stare a lungo costretto in luoghi o situazioni controllate quali la vacanza di gruppo a Pragelato, da sempre alibi del 50enne rispetto all'omicidio, sarebbe invece peggiorata solo successivamente l'epoca universitaria. Poi Martelli era tornato sui quattro capelli, Dna ignoto ma non di Binda, trovati sul corpo di Lidia Macchi in zona pubica durante la seconda autopsia realizzata sul cadavere. “I capelli – aveva ipotizzato – potrebbero essere dell'assassino, sono probabilmente di chi ha avuto un rapporto sessuale con lei, ma non sono di Binda”. Secondo l'accusa sarebbero potuti arrivare sul corpo della studentessa, nella prima autopsia 30 anni fa non furono rilevati, per “contaminazione”, ad esempio durante la vestizione della salma per le esequie, ma secondo Martelli è “improbabile”. A margine dell'udienza l'avvocato aveva aggiunto “la mia collega ha smantellato ogni tesi dell'accusa, pezzo per pezzo, di Binda hanno costruito un'immagine negativa tralasciando ogni aspetto positivo”.

Giallo infinito

“Un vero e proprio deserto probatorio via via fattosi vertigine”. Suonano impietose le parole con cui i giudici della Corte d'Assise d'Appello di Milano hanno cancellato l'ergastolo pronunciato in primo grado dai giudici di Varese nei confronti di Stefano Binda per l'omicidio di Lidia Macchi. Addirittura, i giudici del secondo grado ritengono che, a fronte di “incolmabili lacune probatorie”, i colleghi del primo si siano appoggiati a una sorta di “colpa d'autore”, condannandolo per i suoi problemi legati alla tossicodipendenza e per il peculiare profilo psicologico. “Se non vera e propria 'colpa d'autore' (il soggetto viene punito non per quello che ha fatto, ma per il suo modo di essere) è testuale un'attenzione “in negativo” tutta rivolta alla psiche dell'uomo, alla sua mentalità, persino alla sua cultura e intelligenza, alla sua condizione sociale e di tossicodipendenza (senza, peraltro, alcun riguardo al fatto che diagnosi, ritortegli contro, sono intervenute anni dopo i fatti in causa) e, di conseguenza, delineando solo astratti motivi che lo avrebbero spinto a compiere un gesto grave quanto insensato, motivi del tutto ipotetici e, come non bastasse, in antinomia tra loro”.  Quanto alle decine di persone chiamate in aula, i giudici evidenziano che “nessuno, fra i testi sentiti o dei quali si sono acquisite sommarie informazioni, ha potuto apportare fattivi contributi di conoscenza per quanto concerne l'autore del delitto oppure sulle modalità esecutive, sulle sue cause oppure sul movente”. “Il poco che s'è detto – si legge nelle motivazioni – sembra essere davvero il poco che si sapeva”. La valutazione complessiva degli elementi emersi dalle indagini del “cold case”, riesumato nel 2016 con l'arresto di Binda a quasi 30 anni dai fatti dal pg di Milano Carmen Manfredda, “non solo non consente di attribuire l'omicidio di Lidia Macchi a Stefano Binda con un elevato grado di razionalità ma, al contrario, le irrisolte aporie logiche e le innumerevoli contraddizioni concettuali cui presta il fianco la prospettazione accusatoria nei suoi confronti porta ad affermare a suo favore molto più che il ragionevole dubbio: la ragionevole certezza della sua estraneità al delitto”. I giudici di primo grado “si sono affidati per l'accertamento della verità a prove dichiarative che spesso erano solo personali congetture”. In questo conteso, “l'unica voce del passato che ha apportato un utile, formidabile ancorché incompleto brandello di verità, è, paradossalmente, proprio quella della vittima”. Il riferimento è alle “preziose tracce” riconducibili “a quell'unico individuo”, che non è Binda, che ebbe con lei quell'unico-ultimo rapporto sessuale completo, causa scatenante (ragionevolmente possibile) di quella furia omicida che ha condotto alla sua violenta soppressione fisica”.

Le risposte della scienza

È la scienza, spiegano i i giudici nelle oltre 200 pagine di motivazioni, che “ha introdotto negli atti processuali un dubbio molto più che ragionevole circa la sua estraneità rispetto al componimento poetico e, quel che più conta, rispetto al delitto”. Nel merito delle prove, “non è Binda ad aver lasciato tracce biologiche sulla busta spedita a casa Macchi per recapitarvi 'In morte di un'amica'”. Non è lui ad avere lasciato tracce biologiche sul corpo martoriato della persona offesa e – anche se si è preferito pretermetterlo perché di scarso effetto e minor impatto scenico – non è stata neppure sua madre ad avere confezionato e spedito quell'assai più inquietante anonimo di mano femminile (come prova l'isolato profilo biologico) – 'Una mano che soffre'-  pure giunto alla famiglia Macchi”. È la stessa scienza, riferisce l’Agi, che aveva riaperto le indagini del “cold case” ad avere assolto, coi suoi “dubbi”, Stefano Binda, il 51enne accusato del delitto. Scrivono i giudici della Corte d'Assise d'Appello di Milano nelle motivazioni con cui hanno ribaltato il verdetto di primo grado, assolvendo Binda: “Quella stessa scienza che è riuscita a dar 'voce processuale' alla vittima ad onta del tempo trascorso e degli errori compiuti per i quali non si può far altro che esprimere rammarico e fare ammenda, ha dato un aiuto decisivo e dirimente anche all'imputato Stefano Binda. È la scienza che ha testimoniato a suo favore, non gli amici di un tempo che, al pari di quelli che hanno deposto sulla persona di Lidia Macchi, ne hanno fornito solo un soggettivo (e per questo opinabile) ritratto personologico”.