Lo spread: come funziona e perché ci fa paura

La parola ci colse all'improvviso nell'estate del 2011, fra un'anguria e un bagno al mare: “Spread“. Associata a locuzioni come “in crescita“, “in flessione“, “differenziale“, “default” divenne, nel giro di qualche mese, il principale argomento di dibattito di talk show politici e social network, nei quali il relativo “topic” restò in cima ai trend per diverse settimane, per poi, lentamente, sparire quando venne sancito il superamento dell'emergenza.

Rischio d'impresa

Oggi lo spettro dello spread – dopo aver fatto capolino in primavera durante le giornate di febbrili trattative per la formazione del nuovo governo – torna ad affacciarsi, complice la manovra varata dall'esecutivo a guida Lega-M5s, che prevede un ricorso al deficit (e quindi all'indebitamento da parte dello Stato) del 2,4%. Mossa che punta a far crescere l'Italia “del 2 o del 3%” all'anno, come ha sottolineato il vicepremier Salvini. Ma che, nel contempo, spaventa chi investe sui titoli emessi dal nostro Paese per finanziarsi. Ecco, per spiegare (in modo molto semplicistico) lo spread, dobbiamo partire da qui: dalla differenza di vedute fra uno Stato che decide di ricorrere al rischio di impresa (oggi investo più di quanto potrei con l'obiettivo di rientrare della spesa e di guadagnare entro un determinato lasso di tempo) e quanti prestano denaro allo Stato stesso per consentirgli di portare avanti le sue attività. Semplifichiamo ancora: Tizio è proprietario di un bar che incassa 100, per ampliare la sua offerta e arrivare a guadagnare 1000 cacola di dover investire 5000 (per coprire la ristrutturazione dei locali, l'assunzione di nuovo personale, l'acquisto di caffè più pregiati e così via). Si rivolge dunque a una banca, che approva il suo piano e gli eroga il prestito. Se il progetto andrà a buon fine il titolare non solo sarà in grado di restituire capitale e interessi ma anche di arrivare ai 1000 agognati di guadagno nel tempo stabilito. Altrimenti andrà fallito e l'istituto di credito si rifarà sui suoi averi.

I Buoni

Uno Stato non si comporta tanto diversamente: quando vuole finanziarsi si rivolge alla platea di possibili investitori chiedendo un prestito. Lo fa emettendo sui mercati obbligazioni che vengono acquistate dagli interessati. L'erario fa cassa con il provento dei titoli venduti e garantisce (o almeno tenta di farlo) almeno la restituzione di quanto gli hanno prestato più un eventuale un profitto (attraverso gli interessi) entro un certo tempo. Tornando all'esempio iniziale: lo Stato Caio propone al privato Sempronio di comprare un titolo al prezzo di 10, assicurandogli che, in tot anni, riavrà indietro almeno i 10, più un possibile margine di guadagno. Nel caso dei Buoni poliennali del Tesoro (i cosiddetti Btp) la scadenza (cioè il tempo entro cui l'investitore deve poter rientrare e, forse, fare profitto) è, solitamente, di 10 anni. Con questo sistema un Paese ottiene i sodi necessari per assicurarsi quella parte di liquidità che non può essere coperta dal solo gettito fiscale (cioè dalle tasse incamerate dai suoi cittadini). 

Differenziale

Tra il dire e il fare c'è però di mezzo il mare fatto dalle migliaia di variabili che possono portare uno Stato a non onorare il debito contratto. Si parla, in questo caso, di affidabilità, la quale incide sugli interessi di collocamento. Se un Paese è un “cattivo pagatore” i potenziali finanziatori (soprattutto banche e società di intermediazione mobiliare ma anche nazioni estere) saranno scoraggiati a investire. Di conseguenza il governo di turno sarà costretto ad alzare gli interessi (cioè il margine di guadagno) per rendere i suoi titoli più appetibili, indebitandosi. E arriviamo, quindi, allo spread (“ampiezza” in inglese) che non è altro se non la differenza tra il tasso di rendimento dei titoli di un determinato Stato e quello dei Bund tedeschi. Il parametro di riferimento sono i buoni del tesoro teutonici non in base a qualche normativa, ma semplicemente perché (in questo momento storico) sono considerati i più sicuri. Come di calcola? Si fa la sottrazione tra i due valori senza decimali: se il tasso dei Btp (ad esempio) è di 3,20 e quello dei Bund è di 1,62 lo spread sarà pari a 158 (il risultato di 320 – 162). Questo valore diventa così un indicatore sulla base del quale si deciderà se dare credito o meno a un determinato Paese. Ricapitoliamo: un Paese emette titoli per finanziarsi, se la valutazione degli operatori sulle possibilità di solvenza non sono positive (per enne motivi) sarà costretto a stimolare gli investitori aumentando il rendimento, questò farà salire lo spread rispetto ai più affidabili bund tedeschi. L'impennata di questi giorni è dovuta al fatto che l'esecutivo italiano ha deciso prendersi più rischi ricorrendo a una quota maggiore di deficit (quindi emettere più titoli) con l'obiettivo di stimolare la crescita, la quale (a sua volta) consentirebbe di coprire l'indebitamento. Previsione su cui ,oggi, il giudizio dei mercati non è positivo, ma non è detto che non possa migliorare nel tempo. 

Speculazione

Il sistema, per come è strutturato, apre le porte a possibili fenomeni speculativi, cioè a operazioni finanziare spregiudicate messe in atto per guadagnare ingenti cifre anche a nocumento di altri. La finanza, del resto, è un gioco pericoloso, nel quale è difficile limitare i danni, specie quando la situazione diventa critica e crescono le possibilità di “fare il colpo”. Da questa realtà parte tutto quel filone intellettuale che invita a dare allo spread e al rating (il giudizio sul debito espresso da alcune agenzie private) un peso diverso, salvo ipotesi drastiche. L'alternativa, sostengono, è quella di una situazione di stallo permamente, nel quale ogni Paese è costretto a muoversi entro limiti stringenti, imposti non solo da organismi sovranazionali (come l'Unione europea) ma anche da soggetti privati, portatori di interessi individuali e non collettivi.