La partita del Colle

Tra vincitori e sconfitti l'unico protagonista di questa faticosa maratona elettorale è il Rosatellum. Mai legge elettorale aveva così prepotentemente rubato la scena a partiti e coalizioni. Ed è forse questa l'unica soddisfazione del Pd. 

Un problema di numeri

Proprio così: i Cinque Stelle trionfano ma non possono governare, il centrodestra unito conquista il maggior numero di seggi in Parlamento ma la maggioranza utile per guidare il Paese è tutt'altra cosa. Dalle urne esce un quadro frammentato, nel quale si rendono necessari accordi di programma e trattative per presentare al Quirinale numeri solidi. Ma che potrebbero non reggere alla prova del tempo. Che poi, forse, è la speranza di quanti hanno portato alle Camere una legge elettorale così complessa, assolutamente inadatta a un contesto tripolare qual è quello italiano degli ultimi anni.  

Rottamato

L'unica soddisfazione di un Pd, si diceva, per il resto costretto all'ennesima rifondazione. Il progetto di Matteo Renzi, nei fatti, si è fermato al 40% delle Europee del 2014. Numero su cui l'attuale segretario ha costruito il proprio consenso all'interno del partito. Basti pensare al post referendum del dicembre 2016, quando l'allora premier nel lasciare Palazzo Chigi sottolineava, in ogni caso, di aver mantenuto quella percentuale. I dati di oggi sconfessano l'ottimismo di allora e la risalita dell'affluenza (oltre il 70%) conferma che l'ex rottamatore (che potrebbe auto-rottamarsi dimettendosi da segretario) ha esaurito l'effetto traino. Oggi il Pd è minoranza e le possibilità di essere inglobato in un un governo di larghe intese (con la Lega che domina lo scenario nel centrodestra) sono preossoché nulle. Per risollevarsi serve una riflessione corale, mettendo attorno al tavolo le diverse anime del centrosinistra per ricostruire un quadro unitario, forse sotto rinnovate insegne, di sicuro con un nuovo leader.

Partita difficile

Nel centrodestra la partita non è meno difficile. Forza Italia senza l'effetto dirompente del Berlusconi degli anni ruggenti cede alla Lega di Salvini lo scettro del comando dopo 30 anni di monopolio. Per governare i numeri usciti dalle urne non bastano e quindi si apre una nuova fase di trattative. Complicato l'apparentamento fra Salvini e Di Maio. Più fattibile quello con alcune realtà moderate confluite nella coalizione di centrosinistra. Alla condizione, però, che il segretario federale rinunci alle aspirazioni di premiership. Il patto pre elettorale tra Fi, Lega e Fdi prevede che sia il partito più votato a indicare chi spedire al Quirinale per l'incarico. Ma forse Berlusconi ha sopravvalutato le sue capacità di recupero sull'avversario interno. L'ex Cav non è nuovo a ripensamenti in corsa e, quindi, potrebbe offrire a Salvini ministeri cruciali del nuovo esecutivo (fra cui l'ambitissimo Viminale allo stesso leader del Caroccio) in cambio di un premier azzurro. Il nome caldo è sempre quello di Antonio Tajani, che, però, ha il “difetto” di essere troppo europeista a fronte di un voto che ha invece premiato il sovranismo leghista. Lega che consolida il suo trionfo con la netta affermazione di Attilio Fontana in Lombardia. Ragionamenti che hanno portato diversi esponenti di Fi a essere cauti sul risultato finale, nella speranza che la partita degli uninominali potesse sovvertire gli equilibri. Invece no. 

Essere o non essere?

Inevitabile, dunque, che una parte del Carroccio tenga d'occhio la situazione latu M5s. “Tutti ora dovranno parlare con noi” ha scandito Alessandro Di Battista in piena notte. Le premesse sono diverse da quelle del 2013, quando M5s puntando forte sull'effetto anticasta si trincerò dietro il “no” tranchant a Bersani in diretta streaming. Quella fase, in realtà, è finita da un pezzo, basti pensare alle posizioni decisamente più morbide di Di Maio su Unione europea ed Euro e all'esaurimento dell'effetto “tsnunami tour” sancito dalla progressiva uscita di scena di Beppe Grillo. Ma per presentarsi nel suo nuovo ruolo di forza di governo (qualcuno molto arditamente ha parlato di un M5s in versione “nuova Dc”) sono fondamentali le prossime mosse. In sostanza i pentastellati devono sciogliere le riserve su un punto chiave: vogliono candidarsi realmente alla guida del Paese o ambiscono ancora ad aprire il Parlamento come “una scatola di tonno” in un ruolo di opposizione? Quest'ultima scelta presenta vantaggi e rischi. Numeri alla mano i grillini sono nelle condizioni di poter bloccare qualunque legge o riforma su cui un eventuale maggioranza di centrodestra non abbia le idee chiare, costringendo il nuovo governo a battere il record di mozioni di fiducia segnato dall'ultima legislatura. Con l'ulteriore possibilità di mandare a casa un'esecutivo decisamente più “politico“, e quindi più “fragile” del precedente, che non si muoverebbe nel solco indicato dal Quirinale. Ma alla lunga questa attitudine al “no” potrebbe risultare controproducente. Si rischierebbe un'effetto eclissi. Al contrario M5s dovrebbe cavalcare l'onda di questi risultati lanciando la sua sfida di governo. 

Arbitro

Di certo Di Maio un tentativo al Quirinale lo farà. Ed è sul Colle che si giocherà la partita più importante. Sergio Mattarella è chiamato, almeno una volta, a smettere quei panni di “arbitro imparziale” che si era cucito addosso nel giorno della sua ascesa alla Presidenza della Repubblica, per scendere nell'agone. Con un ruolo magari meno incisivo rispetto a quello giocato da Giorgio Napolitano ma in ogni caso decisivo. Di nuove elezioni sul Colle, al momento, non vogliono sentire neanche parlare. Le tante urgenze del Paese, la necessità di sostenere una crescita economica appena accennata e di rassicurare, al contempo, gli alleati europei sono punti su cui Mattarella orienterà le sue scelte. Con una, possibile, ulteriore annotazione al prossimo Parlamento: mettere quanto prima il Rosatellum in soffitta.