“Il renzismo è finito, ecco perché”

Il quadro politico uscito dalle urne il 4 marzo è complesso. I vincitori trattano per trovare i numeri che li mettano nelle condizioni di governare. Il Pd fa i conti con la debacle elettorale e cerca di rientrare in gioco nonostante il “no” tranchant di Matteo Renzi ad alleanze con Movimento 5 Stelle e centrodestra. Una matassa che Sergio Mattarella dovrà sbrogliare per scongiurare una paralisi istituzionale che spalancherebbe le porte a nuove elezioni. Ne abbiamo parlato con Alessandro Campi, docente di scienza politica presso l'Università di Perugia e direttore della “Rivista di politica”. 

Partiamo dal Pd. Renzi è stato netto: con Lega e M5s non si tratta. E' la strategia giusta?

“Si è chiamato fuori da una partita alla quale dovrebbe, invece, partecipare. Anche perché la situazione lo richiede. La stessa Europa, prima o poi, chiederà a Renzi di fare un passo. Il suo no preventivo, ovviamente, è stata una mossa interna volta a scongiurare possibili fughe in avanti di esponenti dem già pronti a fare i ministri in un governo del M5s. Ciò non toglie che sia tatticamente sbagliato. Senza contare le difficoltà che questa chiusura crea a Mattarella, il quale dovrebbe invece poter contare su una situazione fluida, in cui poter chiedere a tutti di fare un passo avanti e uno indietro. Se, invece, tutti si irrigidiscono la prospettiva è quella di nuove elezioni”. 

Si apre una fase nuova, magari con Gentiloni nel ruolo di leader, come ha ventilato Calenda?

“Sulla leadership del Pd ho un'opinione particolare. Sta passando il concetto che il Partito democratico sia l'emanazione su scala nazionale di un'antropologia, diciamo così, romanocentrica. L'Italia non è Roma, non è Gentiloni, né Calenda, né Zingaretti. Qui c'è un Paese che si è polarizzato fra Nord e Sud. Io opterei per un segretario proveniente da una di queste aree geografiche, che sia in grado di relazionarsi con le situazioni di disagio che le affliggono: i problemi della piccola imprenditoria nel Settentrione e la disoccupazione nel Mezzogiorno. L'immagine che arriva agli elettori è, invece, quella di un Pd chiuso nei palazzi della politica, nelle terrazze della borghesia progressista. Si tratta di un problema che i dem dovranno necessariamente porsi e tornare a mostrarsi come un partito di sinistra. Questo ovviamente dovrà essere seguito da un progetto politico, visto che quello attuale non ha funzionato”. 

Quindi il renzismo è finito? 

“Secondo me sì, anche se dobbiamo stare attenti a non personalizzare troppo la questione. Quello che è avvenuto il 4 marzo rappresenta il fallimento di una proposta politica, di una configurazione culturale e progettuale. In particolare non ha convinto questo riformismo di facciata, giocato sulla velocità, sulla scaltrezza e sull'unicità della leadership. Una sinistra che si apre al fronte moderato senza però nessuna capacità d'interlocuzione con le categorie sociali. Renzi non voleva parlare con nessuno: qualunque forma di mediazione andava scavalcata; questo non è riformismo, è solipsismo leaderistico”. 

E' realistica un'alleanza tra una parte del Pd e il M5s secondo lei? 

“Numeri alla mano una parte del Pd non basterebbe ai Cinque Stelle, servono tutti gli eletti. O si accetta politicamente questa scommessa o non si può andare avanti a colpi di scissioni. Tenga conto che il gruppo parlamentare dem è molto blindato attorno a Renzi. Quindi anche se in 30/40 sposassero la causa del M5s non ci sarebbero comunque i numeri, anche contando gli eventuali eletti di Leu”.

Un governo con i grillini può rappresentare più un rischio o un'opportunità? 

“E' un problema serio. Si rischia di fare da stampella per poi, magari, prendersi la colpa per tutto quello che non si riuscirebbe a fare. Ci sarebbe poi una difficoltà oggettiva legata ad alcune questioni. Pensiamo alle missioni internazionali su cui non esiste una posizione univoca del M5s. Questo in parte giustifica l'irrigidimento di Renzi, anche se non andava proclamato con quella forza. Anche perché non è detto che debba valere per forza anche nei confronti del centrodestra. A volte bisogna saper scegliere il male minore”. 

Passiamo al centrodestra. Salvini si muove da leader, Berlusconi avverte però di essere ancora il regista della coalizione. Con presupposti questo schieramento si presenterà al Colle?

“Ho l'impressione che siamo ancora alle schermaglie e nessuno abbia le idee chiare sul da farsi. Berlusconi fa un tentativo estremo di proporsi in un ruolo di dominus, di regista o garante ma forse più che difendere il suo ruolo di fondatore e aggregatore del centrodestra dovrebbe cominciare a chiedersi il perché di questa sconfitta, del massiccio trasferimento di voti da Forza Italia alla Lega. Quel mondo dovrà prima o poi cambiare, perché non può vivere in eterno sul mito dell'immortalità di Berlusconi e sulla sua capacità di vincere da solo. Altrimenti finirà col disgregarsi e l'egemonia della Lega sul centrodestra diventerà totale”. 

Quali sono state le cause di questa perdita di consenso di Fi a favore del Carroccio? 

“Innanzitutto non c'è stato alcun ricambio di personale politico. Attorno a Berlusconi ruotano sempre le stesse facce, che non hanno mai dimostrato grande capacità di analisi strategica. Non si è, ad esempio, capito che il disagio esistente nel Mezzogiorno avrebbe finito col favorire il Movimento 5 Stelle. Pensiamo alla Sicilia, storico fortino del centrodestra dove si è consumata una disfatta a poche mesi dalla vittoria nelle regionali che ha tolto alla coalizione seggi fondamentali per avere la maggioranza in Parlamento. Questo perché sono stati proposti candidati senza spessore e non ci si è preoccupati di fare uno scouting vero nonostante tutte le promesse che erano state fatte”.

C'è stato anche un problema legato alla proposta politica azzurra?  

“Sì. Mentre Salvini martellava sull'immigrazione Fi si batteva per la flax tax. Non c'è stata una parola forte, un'indicazione di programma che potesse competere, ad esempio, con la proposta, demagogica ma efficace, dei Cinque Stelle sul reddito di cittadinanza. Se hai un pezzo d'Italia che soffre di una terribile disoccupazione e di una crisi sociale non puoi essere così miope da non fare un proposta politica che vada incontro a quell'elettorato. Non puoi pensare che al Sud ti votino solo per affezione nei confronti della figura di Berlusconi. Il successo degli azzurri in passato era legato tanto alla capacità del loro leader di usare il mezzo televisivo che alle proposte politiche concrete. C'erano motivazioni razionali per votarli, oggi non ce ne sono più”. 

Alla luce dei nuovi equilibri come cambia la partita della premiership?   

“Prima o poi si presenterà l'esigenza di proporre un candidato che non sia Salvini, e lo stesso discorso vale anche per Di Maio. Sono due nomi con cui si rischia la paralisi. E le dico un'altra cosa…”

Prego…

“Non credo che Salvini abbia tutto questo desiderio di fare il presidente del Consiglio o il ministro. Svolgere questi ruoli significa stare chiusi dentro un palazzo dalla mattina alla sera, a parlare con i prefetti, con i dirigenti. Salvini è un capo popolo, un segretario di partito, ha bisogno di uno spazio di manovra che non avrebbe né da ministro né da premier. Aggiungo che non è un un nome in grado di attirare consensi. Chi, da sinistra, si metterebbe a fare l'alleato di Salvini? Quindi, secondo me, a un certo punto per sbloccare la situazione bisognerà puntare su altri. L'accordo pre elettorale del centrodestra prevede che il partito più votato indichi il premier. Questo non comporta che debba essere Salvini per forza. Di sicuro, però, la Lega nella composizione del governo chiederà le caselle più importanti”. 

Che garanzie chiederà il capo dello Stato in sede di consultazioni?

“Vorrà un governo che abbia una minima operatività. Un esecutivo che sia il frutto di un'intesa anche minimale su una serie di punti. Ciò che avviene normalmente nei governi di coalizione”.