“Così feci le foto in via Caetani”

Conosco Maurizio Piccirilli da parecchi anni. E' stato il mio ultimo caposervizio al “Tempo”, quotidiano al quale entrambi abbiamo legato le nostre vite professionali. Uno che ha imparato il mestiere sul campo: incredibile la rete di relazioni e contatti che ha intessuto nel corso degli anni, in Italia e all'estero. Ma quel 9 maggio 1978 resta una data decisiva per quello che all'epoca era un giovane fotoreporter.

Cosa ricordi di quel periodo che ha cambiato la storia dell'Italia?

“Era il 55° giorno dal rapimento di Aldo Moro. Io e l'amico Gianni Giansanti, che ci ha lasciati nel 2009 aprendo un vuoto enorme nell’amicizia e nella professione, avevamo 24 e 22 anni, abbiamo passato un mese e mezzo a correre da una parte all’altra di Roma fino ad arrampicarci sul lago della Duchessa, sui monti reatini. Eravamo ancora agli inizi. Ma il lavoro di tutti i giorni (e di tante notti), insieme all'incontro con gli “anziani” del mestiere, ci arricchiva costantemente. Fummo travolti da quanto accadde il 16 marzo 1978, quando il commando delle Brigate Rosse rapì il presidente della Dc Aldo Moro e uccise gli uomini di scorta in via Fani. Quel giorno entrambi arrivammo in quella stradina di Monte Mario e iniziammo a fotografare un episodio che entrava nella storia d'Italia. Gianni arrivò per primo a via Fani. Ma proprio prima di tutti: intorno alla scena della strage pochi poliziotti e pochi curiosi. Scatta, scatta a più non posso. Cambia rulli e obiettivi con la rapidità di una macchina. Il cuore batte forte ma non si ferma. Qualcuno mormora che è stato rapito Moro. 'Inquadro la borsa di Moro per terra e la fascetta dei giornali sul sedile di dietro – ricorderà tempo dopo – l'unico a non essere macchiato di sangue. Poi ad un tratto, vedo una donna accompagnata da un poliziotto e da un sacerdote. La fotografo vicino alla macchina della scorta. Solo dopo seppi che era moglie di Moro'. Io arrivai poco dopo le dieci: via Fani si era riempita di forze dell'ordine. C'era un'agitazione isterica. I corpi degli agenti di scorta coperti da un lenzuolo ma mentre punto l'obiettivo ecco che qualcuno li scopre e io lì a scattare: nel mirino mi appaiono i buchi dei proiettili, i rivoli di sangue. Il cuore batte, cresce un senso di ansia misto a pietà per quegli uomini uccisi. Salgo al primo piano di un edificio d'angolo e inquadro dall'alto la scena e così appare la geometrica potenza dei terroristi. Ecco, da quel giorno fu tutto un correre senza mai abbandonare la borsa con le macchine fotografiche: Moro poteva essere liberato in qualsiasi momento. In ufficio o a casa la radio era sempre accesa: quella sintonizzata sulla frequenza della polizia naturalmente. Ogni indizio poteva essere quello buono”.

E invece, dopo il gelo del lago della Duchessa, arrivò il 9 maggio.

“Ricordo che eravamo vestiti entrambi con jeans, camicia americana acquistata nei mercatini dell'usato e scarpe da ginnastica. Sopra uno con il giubbotto di pelle marrone l'altro con uno blu di cotone. Borsa in spalla ci eravamo appostati a piazza del Gesù in attesa di qualcosa. La mattina trascorre tra una sigaretta, un sigaro (allora fumavamo tutti e due), e un caffè. Verso mezzogiorno e mezza dopo le solite foto allo stato maggiore della Democrazia cristiana, Zaccagnini, Andreotti, Fanfani, il gruppetto di fotografi si concesse una pausa per il pranzo. Gianni rinunciò perché voleva fare qualche scatto a colori ai politici mentre io tornai a casa a mangiare, in piazza Paganica, una traversa di via delle Botteghe Oscure, a cento metri da piazza del Gesù. A cinquanta da via Caetani. A un certo punto Gianni vide tre poliziotti in borghese salire su una Fiat 128, sgommare e dirigersi a tutta velocità verso Largo Argentina. Il mio amico salì in moto e li seguì, a Corso Vittorio l'auto della polizia inchiodò, fece una mezza conversione, tornò in Largo Torre Argentina, quindi si infilò in via delle Botteghe Oscure, dove c'era la sede del Pci. A quel punto gli agenti corsero a piedi in una stradina. Arrivarono i celerini per bloccare via Michelangelo Caetani. 'Non so dove lasciare la moto e in quel momento arrivano altri celerini che bloccano tutto – raccontò in seguito – ma mi accorgo che l'altro ingresso della strada non è stato ancora sbarrato. Riprendo la moto, arrivo appena in tempo, faccio di corsa pochi metri e mi infilo nel primo portone aperto che trovo. Salgo al primo piano, entro in un appartamento e subito mi piazzo alla finestra che si affaccia su via Caetani'. Io invece ero appena sceso da casa per portare a spasso il pastore tedesco e vidi le auto della polizia che arrivare e inchiodare a pochi passi da casa. Si era sparsa la voce di un corpo in una macchina. Torno subito a casa, lascio il cane e prendo al volo la borsa con la macchina fotografica, Via Caetani è già sbarrata da entrambi i lati. Ma quello è il mio rione. Strade e palazzi non hanno segreti per me. Così mi tuffo nel portone di via de' Funari, ingresso secondario di Palazzo Caetani. Attraverso il cortile, salgo le scale, entro anch'io nell'appartamento con le piccole finestre che danno su via Caetani e mi piazzo alla finestra, accanto a Gianni Giansanti e a Olando Fava dell'Ansa. C'è anche un operatore della tv privata Gbr”.

Quello che effettuò le famose riprese televisive che poi fecero il giro del mondo.

“Esatto. Stiamo lassù a pochi metri dalla Reanult rossa che è circondata dalla gente. Sembrano formiche impazzite. Un poliziotto, il funzionario di polizia Corrias, sbircia attraverso il finestrino e si mette la mano sul volto. In casa (è l'appartamento del custode del palazzo, si chiamava Pino), la televisione è accesa sull'edizione straordinaria del telegiornale. Arriva Cossiga, poi un sacerdote. Un poliziotto alza lo sguardo e ci punta contro la pistola, urla che dobbiamo andar via. Allora ci ritiriamo, restiamo in silenzio, aspettiamo. Arrivano gli artificieri e aprono con le pinze il portellone. Gli scatti delle macchine fotografiche si susseguono. Appare una coperta. Un medico la toglie e appare il corpo di Aldo Moro come in un dipinto del Caravaggio. La folla di poliziotti, carabinieri e vigili del fuoco si accalca per vedere. Altri poliziotti li respingono. Scattiamo a raffica e ogni rullino finisce negli slip. Meglio stare sicuri ed evitare sorprese, c'è il rischio concreto che quando usciamo la polizia ci sequestri tutto. Intorno alla Renault rossa un cerchio di gente che guarda attonita la fine tragica del dramma messo in scena dalle Brigate Rosse. Fotografiamo ogni istante fino al momento in cui il corpo scompare nell'ambulanza dei vigili del fuoco, diretta all'obitorio. A quel punto l'uscita da quell'appartamento è una fuga”.

Com'è cambiato il giornalismo da allora? Sarebbe possibile ripetere un simile scoop?

“Eravamo due ragazzini alle prime armi, Gianni e io, alle prese con foto che hanno segnato la fine della prima Repubblica più ancora di Mani pulite e che, nel nostro caso, ci avrebbero anche dato la spinta decisiva a fare della passione per la cronaca, raccontata con le immagini o con le parole, un lavoro. Ma in effetti ogni tanto mi chiedo: oggi che tutti parlano di privacy e che anche gli Ordini professionali sono iperprudenti, quelle foto sarebbero state pubblicate? Penso di no. E sono convinto che sarebbe stato un errore, che per sconfiggere il terrorismo forse ci sarebbero voluti più anni, perché l'impatto di quell'immagine di Moro nel bagagliaio della R4 è stato fortissimo sull'opinione pubblica, ha accelerato la fine delle Brigate rosse, ha segnato in modo plastico la distanza tra la 'pietas' della gente comune e il pragmatismo della politica. La politica che in qualche modo aveva accettato l'idea che un uomo potesse essere lasciato morire in nome della ragion di Stato”.