“Alla Rai serve cultura popolare. Basta elite”

C’è stato un tempo in cui il televisore e la radio costituivano una sorta di totem nelle case degli italiani. Erano strumenti in grado di radunare le famiglie, di creare ritualità, di fare cultura e formare coscienze. Ora non è più così. I tempi sono cambiati. Lo scollamento del popolo con il tubo catodico è stato un processo lento e radicale. Ma è anche irreversibile? In Terris ne ha parlato con il prof. Marco Guzzi, poeta e filosofo, anima insieme all’on. Dalila Nesci (M5s) dei seminari a Montecitorio “Parole Guerriere”, per riflettere su come cambia l’informazione. Guzzi ha lavorato a RadioRai dal 1985 al 1999 come conduttore di trasmissioni di grande successo. E proprio la Rai – spiega – ha il compito di “interpretare e accompagnare il grande cambiamento in atto” nella società.

Prof. Guzzi, che cambiamento è quello in atto?
È un cambiamento immenso, di portata addirittura antropologica. C’è come un ridisegnare i lineamenti millenari che l’umanità si è data. Sono in discussione i concetti portanti, che sembrerebbero scontati: si pensi solo che c’è oggi un dibattito su cos’è maschio e cos’è femmina. Ma si assiste anche a un travaglio rigenerativo radicale dell’intero sistema democratico. Non ne è esente la religione, con le Chiese che vedono allontanarsi i fedeli dalle ritualità tradizionali. Come tutti i grandi sconvolgimenti, anche questo vive delle fasi caotiche, di smarrimento per la perdita di riferimenti. Sono fiducioso in ciò che sta avvenendo ma, come diceva Goethe, prima di arrivare a un cambiamento evolutivo ci sono anche degli sviluppi abortivi”.

Questa realtà come influisce sui media?
“I media sono uno dei luoghi di questo cambiamento. C’è un’esplosione della telematica, delle tecnologie, una sorta di ‘comunicomania’, come la definiva James Hillman, ossia una mania di comunicazione che però talvolta perde il senso, si finisce per comunicare soltanto impulsi primari. La rete, i social network sono come un martello, che può essere usato per appendere un quadro o per darlo in testa al prossimo. Ecco, io credo che oggi questi strumenti telematici vengano preminentemente usati per ‘ammazzare’ piuttosto che per comunicare. Per questo è necessario un immenso lavoro culturale per dare contenuti evolutivi agli strumenti della comunicazione che di per sé sono neutrali.”

A suo avviso come si pone la Rai di fronte a questo cambiamento?
“È una questione annosa, che dura ormai da decenni. Almeno a partire dagli anni ‘80 la Rai è andata omologandosi alle tv e alle radio commerciali e private, fino a dar l'impressione di aver perso quel carattere di servizio pubblico che invece connota la Rai come enorme luogo di cultura nazionale”.

Avverte che qualche piccolo passo di cambiamento stia avvenendo da quando si è insediato Marcello Foa alla presidenza?
“Nel corso dell’ultimo seminario ‘Parole guerriere’ ho cercato di sollecitare con una certa forza sia Foa sia l’Ad Fabrizio Salini ad operare dei cambiamenti seri, anche se graduali perché so bene quanto è complessa l’organizzazione della Rai. Sinceramente ancora non vedo molto di diverso: predominano programmi analoghi a quelli delle tv commerciali, prevale il criterio dell’audience e quindi della pubblicità, molte trasmissioni sono caratterizzate da battibecchi, intrise di veleno”.

Non crede sia difficile assumere un ruolo pedagogico in un contesto storico come l’attuale, dove crollano le certezze antropologiche e regna il relativismo etico?
“È certamente difficile, ma è possibile. Ho condotto dal 1985 al 1999 alcune delle maggiori trasmissioni di RadioRai, in particolare il 3131 che probabilmente è stata la trasmissione radiofonica che ha inaugurato la storia dell’interazione tra pubblico e conduttore attraverso le dirette telefoniche. In queste oltre mille ore di dialogo, ho fatto un lavoro intenso di elaborazione delle idee con un linguaggio popolare. E abbiamo avuto enormi riscontri: nel 1995, quando chiusero 3131, avevamo 800mila ascoltatori la mattina alle 10.30. Questa esperienza dimostra che il ruolo pedagogico non deve essere impositivo, ma deve avere un senso socratico, maieutico: bisogna aiutare le persone a pensare liberamente. Ancora oggi girando per l’Italia in molti mi ringraziano per ciò che hanno ricevuto in quegli anni di radio. C’è poi un’altra esperienza in tal senso, quella che ho avviato vent’anni fa dei gruppi di liberazione interiore ‘Darsi pace’, dove svolgiamo un lavoro sia di insegnamento diretto che attraverso la rete: ebbene, riscontriamo un interesse sempre crescente. Le persone hanno un bisogno straziante di parole, di conoscenza, di cultura popolare, e sottolineo popolare, non parlo di qualcosa di accademico ed elitario. Del resto le elite culturali degli ultimi trent’anni hanno tradito il popolo, difendendo un sistema economico neo-liberista e un pensiero unico, hanno fatto carriera abbandonando il popolo alla pubblicità e al mercato divinizzato. Solo Pasolini ha gridato al massacro antropologico, alla devastazione della terra e dei cuori. Oggi c’è bisogno di riannodare i fili con quella protesta”.

In una tv in cui la pubblicità svolge un ruolo economico determinante, ritiene realistico per la Rai abbandonare il criterio dell’audience?
“Sono assolutamente di questo avviso. Credo che bisognerebbe seriamente interrogare l’opinione pubblica se la pubblicità ci debba essere nei canali tv del servizio pubblico. E da questo deriva un’altra riflessione, su cosa sia servizio pubblico. Ad esempio, un varietà è servizio pubblico?”.

Secondo lei?
“Non lo so, vorrei però che ci fosse un dibattito pubblico su questo. È chiaro che se la Rai vuole essere alla stregua di un’emittente commerciale, vuole offrire programmi tv i cui conduttori vengono lautamente pagati, ha dei costi talmente elevati per cui diventa necessario ficcarci dentro minuti e minuti di pubblicità”.

Auditel ha annunciato che entro aprile diffonderà i dati degli ascolti rilevati non solo dalle tv tradizionali, ma anche da tablet, cellulari, etc. C’è da aspettarsi uno sconvolgimento rispetto ad oggi?
“C’è già stato. La rete è già una delle fonti fondamentali dei cambiamenti anche politici che si sono susseguiti in questi anni. Non voglio valutare se siano positivi o negativi, ma senza dubbio sia Obama che Trump hanno vinto le elezioni usando molto bene i social, così come attraverso le piattaforme virtuali si sono alimentate le pur discutibili ‘primavere arabe’. Ciò avviene anche in Italia, dove i cittadini hanno imparato ad informarsi non solo sui grandi giornali e sui canali tv, che hanno perso la loro capacità di influenzamento politico: la gente non crede più loro, preferisce verificare le notizie in rete. Il fenomeno del M5s è emblematico di un movimento che nasce sulla rete e che, malgrado sia stato contrastato da tutti i media mainstream, è riuscito a riscuotere enorme successo. Ma la rete da sola non basta: se i 5Stelle non avessero avuto Beppe Grillo in piazza, non avrebbe avuto la forza di raccogliere undici milioni di voti. Quest’esperienza politica insegna che è necessario un pensiero da elaborare che dia contenuti ed orientamenti all’idea di cambiamento. Un ruolo che il servizio pubblico dovrebbe far proprio”.

Karl Popper proponeva una regolamentazione dell’informazione tv per evitare che contenuti diseducativi influenzassero le giovani generazioni. Oggi che le nuove tecnologie hanno reso ancora più pervasiva la diffusione dei contenuti, una simile proposta sarebbe realizzabile e, a suo avviso, auspicabile?
“È di difficile realizzazione ed è anche pericolosa. Intanto è difficile stabilire cos’è diseducativo, i criteri potrebbero cambiare con le onde politiche e trasformarsi in forme di censura da minculpop. Ciò che va fatto è un processo serio di cambiamento culturale che oggi non c’è. Vanno proposte – nelle scuole, nelle università – idee che diano speranza, che entusiasmino. Se ai giovani comunichiamo che il mondo è fatto di pubblicità, corruzione e materialismo, cosa possiamo auspicare che questi ragazzi facciano? Cito ancora Pasolini: la droga è un surrogato della cultura. Se non diamo loro cultura, i ragazzi si drogano in vario modo, anche stando davanti allo schermo, magari per vedere il porno. E torno quindi sul ruolo pedagogico della Rai: deve coinvolgere il popolo, deve vincere la bruttezza non censurandola, ma con la fascinazione della bellezza. Gli attuali dirigenti della Rai devono trovare anche conduttori nuovi, con idee nuove, altrimenti rimarremo in questa situazione”.

Un suo ritorno in Rai è possibile?
“Ho detto al presidente Foa che sarei disposto a collaborare a un programma tv nuovo, l’ho chiamato un ‘programma pirata’, che critichi l’intero sistema informativo. Una democrazia se lo può permettere, perché non ha paura della critica. Una simile proposta sarebbe accolta con molto piacere dal pubblico. Certo, un simile programma richiede da parte dei dirigenti lo spirito di cambiamento che ho descritto finora, altrimenti non si va da nessuna parte”.